
Stando al canonico penitenziere Vincenzo Fragomeni, monsignor Giuseppe Maria Pellicano (vescovo dal 1818 al 1833, quello che, come si sa, fu benemerito della ricostruzione della Cattedrale nel 1829) aveva un sacro terrore dei carbonari: «All’inizio dell’anno 1820 -scrive nel 1880 il canonico geracese- settari usciti fuori dai loro covi per spargere veleno qua e là penetrarono anche nella testa e nel cuore dei giovani che vivevano nel seminario, per la qual cosa il vescovo Pellicano, preso da profondo timore, prudentemente, ma con animo sofferente e dolente, chiuse il seminario e mandò i giovani alle loro case, accontentandosi di garantire lo studio della Teologia Morale e Lingua latina a quei chierici che manifestavano segni certi di vocazione ecclesiastica, in attesa di tempi migliori per riprendere il curriculum di tutti gli studi, cosa che aspettò inutilmente per tutta la vita».
In verità, presenze carbonare nel territorio della nostra diocesi, anche tra i chierici, si erano verosimilmente avute fin dagli ultimi anni del governo di Gioacchino Murat, ma la prima attestazione che ne abbiamo è degli inizi del 1816, quando il vicario capitolare Reginaldo Longo, venuto a sapere che in diocesi «si ritrovano alcuni individui, i quali hanno ritenuto una segreta società, per cui credono essere caduti nelle censure», aveva scritto a Roma per chiedere la facoltà di assolverli.
La «segreta società» di cui parlava il vicario capitolare era senz’altro una vendita carbonara. Infatti, dalla stessa, definendola inequivocabilmente carboneria, aveva dichiarato di volersi allontanare, poco tempo dopo, per continuare a vivere nel seno della Chiesa, il suddiacono Bruno Micò, di Casignana.
Ma, parlando dei carbonari, il fatto da segnalare a Gerace è che, addirittura, fu il governo napoletano a riprendere il vescovo Pellicano circa i suoi atteggiamenti nei loro confronti. Informato che il vescovo geracese aveva invitato i confessori a negare l’assoluzione «ai componenti le società suddette», il Ministro degli Affari Ecclesiastici di Napoli, il 29 novembre 1820, cioè mentre si viveva all’ombra della costituzione concessa da Ferdinando I dopo i moti del mese di luglio, inviò al presule una ferma reprimenda, ricordandogli che «la scomunica ai Carbonari emanata dal Papa nel 1814 sul supposto che costoro cospirassero contro la Religione, non ha alcun vigore, ora che è notorio il contrario» e che, ove l’iniziativa del vescovo «fosse stata diretta da un fine politico», cioè dal tentativo di impedire l’applicazione della costituzione, tale ingerenza non poteva in alcun modo essere tollerata. Pertanto, concludeva il Ministro, «sarà sua cura far cessare le inquietudini, dando una saggia istruzione ai Preti, e specialmente ai confessori che inculchino la morale evangelica, ch’è il loro nobile ufficio, e non si brighino di oggetti estranei alla loro missione».
Di lì a poco, annullati tutti gli atti costituzionali emanati tra il 5 luglio 1820 e il 23 marzo 1821 (data dell’ingresso delle truppe austriache a Napoli), reprimende di quel tipo non furono più spedite! Ad ogni modo, il seminario era stato già chiuso e il vescovo Pellicano rimase in attesa di tempi migliori per riaprirlo, «tempi che -secondo il Fragomeni, come abbiamo visto- durante la sua vita attese invano».
Enzo D’Agostino
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