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Sentenza Lucano, “caso Riace” e l’eterna emergenza L'editoriale di Enzo Romeo

Sentenza Lucano, “caso Riace” e l’eterna emergenza

 

Enzo Romeo

 

In un Paese democratico, dove vige ancora la certezza del diritto, una sentenza di condanna è sempre una sconfitta. Per tutti, non solo per chi la subisce. Tanto più quando sul banco degli imputati c’è un amministratore che rappresenta la cosa pubblica, come nel caso di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace. Tredici anni e due mesi di carcere sono tanti, tantissimi. Ci auguriamo di cuore che Lucano possa dimostrare la sua innocenza nel secondo grado di giudizio.

Inutile e dannoso, però, è il gioco dei commenti politici. Quante volte abbiamo assistito a questo teatrino, sia alla fine della cosiddetta 1a repubblica che nell’era berlusconiana. Adesso viene riproposto, a parti invertite. Bisognerebbe attendere, almeno, di conoscere le motivazioni della sentenza prima di avventurarsi in critiche taglienti («è una persecuzione ideologica») o in esultanze fuori luogo («lo avevamo detto noi che si lucrava sull’accoglienza dei migranti!».

Lucano dopo la sentenza ha detto di pagare lo scotto della sua popolarità. È vero. Dal primo sbarco dei curdi sulla spiaggia di Riace nel 1988 a oggi l’accoglienza di profughi e migranti è divenuta “modello”, poi marchio politico, quindi “sistema di sviluppo”. In un crescendo di aspettative e anche di retorica. Forse Lucano, nella foga della sua attività ispirata dall’ideale dell’egualitarismo, non si è reso conto che la sua figura diveniva sempre più simile a quella di Masaniello. Come nella vicenda del pescatore napoletano che nel XVII secolo innescò la rivolta antispagnola, così in quella di Lucano non è facile distinguere gli avvenimenti reali dal “mito”. La Calabria è depressa e abbandonata al suo destino? Tanto peggio! Sarà risollevata dai poveri del mondo!

In tal modo, fatto salvo il dovere di aiutare chiunque è in difficoltà, da qualunque parte provenga, si è forzato il concetto di solidarietà, pretendendo di trasformarla in volano per la crescita del territorio. Un’operazione portata avanti a tutti i costi, col sostegno incondizionato di una parte del sistema politico e dell’opinione pubblica nazionale e internazionale e lo scetticismo, se non l’ostilità, di un’altra parte altrettanto larga.

Riace è divenuta così un limes, un confine, dove si è combattuta una battaglia ben più grande di quanto potesse sopportare un piccolo paese e il suo pur attivissimo sindaco. Un paese – paradosso dei paradossi – spopolato dall’emigrazione, svuotato di quasi tutti i suoi giovani in fuga verso lidi migliori e riempito nel frattempo da qualche decina di persone prive di tutto, provenienti dall’Africa e dell’Asia con viaggi fortunosi e drammatici organizzati da scafisti senza scrupoli. Era realistico pensare di fare rifiorire una comunità con questi innesti? Di fatto, si è andato avanti con i sussidi statali che hanno alimentato un meccanismo assistenzialistico (col consueto rischio del clientelismo parassitario) più che un sistema virtuoso di integrazione.

Adesso è tempo per tutti di far tesoro del “caso Riace”. Se l’immigrazione non può essere trattata come un’eterna emergenza, perché fenomeno ormai pluridecennale, essa non va nemmeno considerata nel nostro Meridione una sorta di “industria sotterranea”, per ottenere benefici (sia pure in buona fede e con le migliori intenzioni) dal dramma di chi fugge da guerre e miseria. Solo trovando autentiche strade di crescita socio-economica – vedi le speranze legate agli investimenti europei del recovery fund – e di cambiamento culturale si potrà far sì che questa nostra terra divenga davvero casa accogliente, per i propri figli e per i fratelli che giungono da lontano. Nella condivisione di un comune destino.

©2023 Pandocheion – Casa che accoglie. Diocesi di Locri-Gerace. Tutti i diritti sono riservati.

Accoglienza: tra slogan e
utopia
di Enzo Romeo

Accoglienza: tra slogan e utopia

    Con l’«esilio» forzato dalla sua Riace il sindaco Domenico Lucano ha avuto modo in questi mesi spiegare, con incontri e interventi sui mass media, che i migranti sono i proletari del terzo millennio e che la solidarietà verso di loro è un dovere. Il suo testone da calabrese cocciuto ha rappresentato un popolo povero ma accogliente, dove una volta chi incrociava qualcuno gli diceva «Favorite!». E tirava fuori dal fagotto quel poco di cibo che poteva offrire.

Perciò rattrista una vicenda giudiziaria che forse è il prezzo (ingenuità e presunzione a parte) di un’utopia irrealizzabile, tanto più nell’Italia di oggi. La speranza è che la vicenda Riace serva a capire che l’impegno umanitario verso gli immigrati non può essere separato da un altro egualmente essenziale: il rilancio socio-economico del territorio. Trovando modalità concrete che consentano di procedere come su due rotaie di un unico binario. Con la speranza che giunga finalmente in stazione un treno che porti crescita solidale, lavoro e prospettive di sviluppo. Per tutti.

Il «modello Riace» è stato caricato di simboli, di attese, di speranze e di retorica. Un bandiera da sventolare, magari a volte su cui speculare. L’attenzione verso gli ultimi, i più diseredati ed emarginati, tratto fondamentale della nostra civiltà, trasformato in uno slogan, in un mantra. Nel frattempo, però, i poveri cristi si sono trasformati in una massa anonima. Non si è trattato più di accogliere i curdi spiaggiati sulle nostre coste, ma di dare ospitalità a gente sbarcata a centinaia e centinaia di chilometri di distanza, condotta fin da qui e «presa in gestione» da un ente. Nel caso specifico, da piccoli comuni di una delle zone economicamente più depresse d’Italia. Per far cosa? La domanda, un po’ perniciosa, è stata riproposta fin troppe volte. Seguita da un’altra, ancor più maliziosa: per lucrare sulla manciata di euro che lo Stato destinava al mantenimento di profughi e immigrati?

Sicuramente la confusione ha portato a coniare il termine “industria dell’accoglienza”: un ossimoro, per dire che gli sbarchi erano un modo per risollevare il territorio o, almeno, per avere una boccata d’ossigeno. Un’industria di risulta, fatta di mance destinate al sostegno di chi si è aggrappato all’Italia come fa un profugo con una tavola di legno mentre la nave affonda. Lo sappiamo, anche pochi posti di lavoro, precari e malpagati, dalle nostre parti fanno gola. Che male c’è? Facciamo ciò che ci riesce meglio, cioè accogliamo, e in cambio riceviamo soldi per creare cooperative, per alimentare il commercio… Adesso fa male assistere alla chiusura della dozzina di centri d’accoglienza e integrazione dell’area ionica reggina, come conseguenza del decreto sicurezza. Vuol dire decine di operatori sociali a spasso senza stipendio.

Dobbiamo, però, chiederci in tutta onestà: si può creare vero sviluppo e futuro trasformando un intero paese in una specie di villaggio-Sprar? Nel frattempo continuiamo a mandar via da queste terre i nostri figli perché non siamo stati capaci (o non ci hanno permesso) di dar loro una prospettiva di vita. Il territorio è desertificato. I giovani, linfa vitale, scappano con un biglietto di sola andata. Siamo, del resto, nell’epoca del fuggi fuggi, del si-salvi-chi-può. La crisi di sistema – che dall’economia si estende a politica e società – sta erodendo la speranza. Partire è di nuovo un imperativo per tutti noi calabresi, non solo per i fratelli di quello che una volta chiamavamo “terzo mondo”. Bisogna, allora, concentrarsi sulla necessità (o almeno la possibilità) di rimanere là dove si è nati, nei luoghi della propria infanzia e giovinezza, quelli che ci hanno formato e che meritano di non essere abbandonati ma presi in cura. Questo vale per il calabrese e per il maliano, per il siculo e per il nigeriano o l’indiano o il bengalese…

La prima carità da fare è verso il pezzo di mondo che ci è stato affidato e che sta agonizzando. Più istruzione e cultura perché cambi la mentalità fatalista, perché il senso di giustizia e legalità prevalga sulle scorciatoie mafiose; nuove strutture e investimenti per rilanciare l’imprenditoria locale; maggiore creatività per progettare strade nuove, che mettano a frutto le bellezze climatiche, storiche, e ambientali di cui disponiamo. Certo, è impresa difficile, ma bisogna guardare lontano, non accontentarsi di arrivare a domani mattina. Così si creano davvero le condizioni per accogliere e integrare.

Enzo Romeo

©2023 Pandocheion – Casa che accoglie. Diocesi di Locri-Gerace. Tutti i diritti sono riservati.

In merito all’arresto del sindaco di Riace Dichiarazione del Vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva

L’arresto del sindaco di Riace Mimmo Lucano ci addolora, perché riguarda uno che ha fatto dell’accoglienza migranti la sua ragione di vita. Sono certo che la Magistratura saprà fare luce sui fatti contestati in modo che la verità possa prevalere. Nell’interesse di Lucano, di Riace e di tutta la Comunità ora sconcertata e disorientata più mai. L’accoglienza dei migranti negli ultimi anni ha visto coinvolte tantissime realtà territoriali e la Locride lo è stata in prima linea, mettendo a disposizione le strutture ricettizie disponibili. Anche la Chiesa si è adoperata in tale senso. E’ stata una gara di solidarietà che ha visto impegnarsi in prima persona il sindaco di Riace e non solo. Sono tante le associazioni impegnate nell’accoglienza, che hanno ridato vita a realtà territoriali e centri storici in via di spopolamento. Va riconosciuto che tanto fervore è venuto incontro alle difficoltà dello Stato e del suo apparato amministrativo. Sarebbe offensivo per quanti operano nell’accoglienza strumentalizzare quanto accaduto (del resto ancora in corso di accertamento), per attaccare tutta l’organizzazione dell’accoglienza, pur sapendo che non sono mancati i limiti e gli errori commessi. In tanti casi si è sostituita allo Stato. Oggi la buona volontà non basta. Occorre un sussulto di umanità che aiuti a superare la tentazione di vedere nel migrante un pericoloso straniero. Anche lo Stato con le sue leggi ed il suo apparato burocratico deve tener conto di tali bisogni ed è chiamato a vigilare attraverso gli organi preposti, perché non si speculi sulla pelle del migrante e non si approfitti dei finanziamenti pubblici, così come deve sostenere chi se ne occupa nel rispetto delle leggi. La legge è per l’uomo e per una vita sociale più umana, che si faccia carico dei diritti fondamentali della persona. La burocrazia deve aiutare in tale senso. Guai a voltare le spalle a chi è nel bisogno e bussa alla porta delle nostre case, ne verrebbe a scadere la nostra stessa umanità.

©2023 Pandocheion – Casa che accoglie. Diocesi di Locri-Gerace. Tutti i diritti sono riservati.