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Eucaristia e Parola di Dio: binario fondamentale per il nostro stile ecclesiale. L'Omelia di S.E. monsignor Francesco Oliva nella Solennità del Corpus Domini

Solennità del Corpus Domini
(Locri 8 giugno 2023)

Omelia di S.E. monsignor Francesco Oliva

«Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere…, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8, 2-3).
Mosè sembra parlare a noi, oggi, a noi, sacerdoti, a Voi fedeli laici, associazioni e a tutta la nostra comunità, qui riunita per celebrare il giovedì del Corpus Domini per la prima volta in questa Cattedrale adeguatamente rinnovata e restaurata. E’ una celebrazione diocesana voluta dal clero e ben accolta da tanti fedeli laici. Certamente per un bisogno di unità e per rinnovare la coscienza dell’appartenenza al medesimo corpo. Ma anche – ne sono convinto – per qualcosa di più: per il desiderio di ricompattarsi attorno all’Eucaristia, pane spezzato e alimento fondamentale nel deserto della vita, in modo da vivere il cammino sinodale ed affrontarlo senza paure e con coraggio.
Abbiamo bisogno di pane, ma anche di quanto esce dalla bocca del Signore, dell’Eucaristia, alimento del nostro cammino sinodale, ma anche di tanto discernimento spirituale!
Vedo un forte legame tra il cammino sinodale e l’Eucaristia. Il cammino sinodale ha la sua fonte e il culmine nella partecipazione piena e consapevole alla mensa della Parola e del Pane Eucaristico: l’Eucaristia è l’evento sinodale per eccellenza, ci fa vivere l’esperienza che identifica il nostro essere popolo di Dio in cammino dietro a Gesù. Celebriamo l’Eucaristia, ma è l’Eucaristia che ci fa essere Chiesa. Il cammino sinodale che stiamo vivendo è plasmato e alimentato dall’Eucaristia.
L’Eucaristia ci accoglie e ci dà vita, unifica le differenze, fa incontrare le generazioni, genera e nutre la sinodalità. L’essere “sinodale” è camminare in armonia con la grazia dello Spirito.
L’Eucaristia ci rende sinodali, facendo sì che l’unità prevalga sulle differenze che possono restare tali, senza che venga meno la comunione ecclesiale. Il cammino sinodale che stiamo vivendo, seppure con qualche resistenza e fatica in più, esige che la nostra Chiesa sia sempre più ciò che è chiamata ad essere: adunanza del popolo dei battezzati con la
ricchezza dei suoi carismi e la varietà dei ministeri a servizio dell’unità. Fa emergere il bisogno di dialogo, del dialogo che nasce dall’ascolto reciproco, dalla conoscenza, dall’amicizia, da esperienze spirituali e pastorali condivise, da frequenti incontri anche conviviali. E’ un tempo di prova ed una sfida per la nostra fedeltà a Dio ed alla chiesa. Vengono fuori le nostre povertà e fragilità, le incertezze e infedeltà, le difficoltà del cammino. Ma la Parola c’invita a “non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri” (Es. 8, 14-16) Non dimenticare mai i benefici del Signore e la sua fedeltà: “sono come un olivo verdeggiante nella casa di Dio; confido per sempre nella sua bontà” (Sl 52, 10).
C’è una sfida particolare per noi, cari presbiteri: diventare l’unica “famiglia del presbiterio
diocesano”, nella quale non si vive l’uno accanto all’altro per una funzione da svolgere, ma “l’uno per l’altro” per una comune vocazione e missione. È la sfida dell’uscire dallo stato di solitudine, a volte “dorato”, a volte tragico, che ci stimola a reimparare a vivere e a camminare insieme, per accogliere il confratello come una risorsa umana e spirituale, come un compagno di viaggio. E’ la sfida che ci porta a riconoscere che anche il rapporto con i fedeli laici, spesso conflittuale e superficiale e poco fraterno, va ripensato e riformulato. E’ la sfida a vincere il tarlo del clericalismo sia quando ad incarnarlo sono i preti (“sono io il parroco e decido io”) sia quando a presentarlo sono i laici cosiddetti impegnati (“io sono…, io rivesto il ruolo di…, io ho la fiducia del parroco… ”). E’ la sfida del ruolo che viene esercitato nello stile del potere costituito e del comando, del protagonismo e del sentirsi al di sopra di tutti.
E’ quanto mette a dura prova le nostre comunità ed il cammino sinodale.
In questa prospettiva è urgente programmare un cammino sinodale che abbia nell’Eucaristia e nella Parola la sua forza e vitalità. L’Eucaristia e l’ascolto della Parola di Dio e dei fratelli sono il binario fondamentale su cui impostare il nostro stile ecclesiale. Ascolto innanzi tutto della Parola di Dio, dalla quale nessun cristiano può prescindere e ascolto reciproco che si fa attenzione all’altro e al suo mondo interiore, dialogo vero e sincero. Se è vero che come pastori abbiamo una particolare assistenza dello Spirito nell’esercizio del ministero, è anche vero che ogni battezzato che si pone in ascolto della Parola e vive nella semplicità e umiltà il suo cammino di fede può aiutare la comunità a crescere nella comprensione della volontà di Dio. Presbiteri, diaconi, ministri straordinari della comunione, volontari della caritas, fedeli laici siamo tutti compagni di viaggio. «Voi siete tutti compagni di viaggio (σύνοδοι) in virtù della dignità battesimale e dell’amicizia con Cristo», scriveva sant’Ignazio di Antiochia ai cristiani di Efeso.
Oggi sembra di moda parlare di sinodalità e forse ne abusiamo anche, dimenticando che nel suo uso all’inizio, sinodi erano le persone, sinodo è Cristo, nostro compagno di cammino. Sinodo e Chiesa sono sinonimi e questo lo capiamo soltanto se riconosciamo che siamo sempre «persone che si incontrano». Sinodi siamo allora noi, pellegrinante popolo di Dio. Lo spiega san Paolo con parole forti nella seconda lettura: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (Cor 10, 17). Non si può far parte di una comunione nell’indifferenza, nell’anonimato e nell’ostilità. Chi mi sta accanto, colui o colei che il Signore mette sulla mia strada, è il mio “prossimo”, cioè qualcuno da amare. Ce lo chiede il Vangelo. E’ un amore concreto non platonico o sentimentale, quello che nella realtà quotidiana si fa attenzione, ascolto, dialogo e amicizia, servizio. E’ possibile che ce ne dimentichiamo, quando invece siamo chiamati ad avere, proprio in quanto cristiani, attenzione particolare alla realtà degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, degli immigrati, degli ammalati, dei carcerati. Ci dimentichiamo che se l’Eucaristia non si esprime nel volersi bene all’interno della
comunità, le molte messe che celebriamo o partecipiamo sono poco fruttuose e impoveriscono più che arricchirci interiormente. Eppure il Signore continua a darsi gratuitamente sino alla fine. Diceva don Giuseppe Dossetti che fino a quando nelle nostre città si celebrerà una Eucaristia, cioè la manifestazione gloriosa, gratuita dell’amore senza limiti del Verbo fatto carne per l’uomo, la città sarà salva.
Con questa solenne celebrazione vogliamo comunicare con Gesù e proclamare per le vie della città l’amore di Dio fattosi carne, visibilità. E’ Lui il Signore che ci ha radunati, «il pane vivo disceso dal cielo» (Gv 6,51), «il cibo per coloro che camminano» (cibus viatorum), come dice san Tommaso.
Oggi vogliamo ridare vigore al nostro cammino sinodale nel segno del Pane. Ritorniamo al gusto del pane, ci ricordava il recente Congresso eucaristico nazionale. Ritroviamo il gusto del pane condiviso e da condividere, del pane spezzato che dà a tutti Vita e la dà in pienezza. È il mistero di una comunione che è pienezza di relazione, un’unità che non è uniformità, ma armonia delle differenze, convivialità.
La convivialità, il perdono, l’Eucaristia e l’amore fraterno sono l’essenza della sinodalità. Anche la Chiesa è convivialità, perdono, comunione, deposizione di ogni rancore, attrazione delle diversità.
O meglio, non è mai pienamente così, ma è chiamata continuamente ad esserlo. Ciascuno è unito a Cristo Gesù e all’unico corpo ecclesiale, nell’unicità del dono dello Spirito. Guai perciò se perdessimo il gusto di questa unicità, proprio come del pane fatto bene, del buon pane.
In un mondo che è lacerato da divisioni e da guerre abbiamo bisogno del gusto del pane che riconcilia e unisce, costruendo ponti, facendo rete, mettendo in dialogo le persone e le comunità, riconciliandoci con la natura e l’ambiente circostante. È il cammino di tutti e soprattutto di noi credenti. Chiediamo la grazia di sperimentare il senso ecclesiale dell’Eucaristia che ogni giorno celebriamo nelle comunità. Chiediamo che dall’Eucaristia sgorghi un agire più conseguente e meno incoerente, un agire più consapevole di quanto ci manca ancora, per realizzare appieno il precetto di Gesù e il suo Vangelo. Amen.

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Sul modello del sacerdozio di Cristo Santa Messa Crismale (Basilica minore di Gerace – 1 aprile 2021) - Omelia di S.E. monsignor Francesco Oliva

Santa Messa Crismale

(Basilica minore di Gerace – 1 aprile 2021)

 

Carissimi Confratelli nel Sacerdozio,

Diaconi Religiosi e Religiose,

Fedeli tutti,

 

Il Vangelo ci ha presentato Gesù, che, dopo aver letto il brano del profeta Isaia, afferma che “oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). La profezia di Isaia si compie nell’‘oggi’. Gesù annuncia anche il compiersi dell’anno di grazia nell’oggi della sua presenza tra noi. La sua venuta è tempo di pienezza. Anche il nostro tempo, così complesso e difficile, appartiene all’ “oggi” di Cristo:

Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).

Questa “bella notizia” trova compimento nel nostro ministero sacerdotale. Noi siamo il “compimento”, la pienezza di quell’annuncio, essendo costituiti “per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Ebr 5, 1). Sul modello del sacerdozio di Cristo compiamo le azioni che Egli stesso ha compiuto. Egli ha scelto la via dell’incarnazione, dell’essere vicino, tra la gente, intervenendo di fronte alle miserie umane e mostrando il Regno di Dio. È questa la via maestra della Redenzione, che raggiunge i più bisognosi, gli oppressi, i prigionieri, i ciechi, gli ultimi della società. Gesù esce dal tempio, per andare incontro agli smarriti e agli sfiduciati. Sceglie la via della vicinanza, quella che la gente chiede ai sacerdoti:

Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”, “Lo so, padre, che Lei è molto occupato” – dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti – dice la gente –: coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono… Preti vicini, che parlano con tutti” (papa Francesco, Omelia Messa crismale 2018).

Oggi rinnoviamo le promesse sacerdotali, per stringerci ancora di più a Gesù e confermare il nostro impegno a lavorare con maggiore impegno, “quando i giorni sono cattivi” (Ef 5, 16).

Vorrei chiedere a me e a ciascun sacerdote: Che cosa questi mesi di pandemia stanno suscitando in noi? Quali inquietudini e attese? Quali preoccupazioni pastorali?  In che modo stiamo alimentando la fede, la speranza e la carità? Su questi interrogativi mi sono soffermato nella recente lettera per il tempo di Quaresima e Pasqua “Verso la Pasqua, alba di un nuovo giorno”. In essa ho provato ad aprirvi il mio cuore ed a parteciparvi tutto ciò che ho sperimentato in questo tempo. Un tempo di prova anche per me. A diretto contatto con la malattia: tra medici ed infermieri, in una stanza d’ospedale. Il Signore mi è stato vicino nel silenzio di una camera d’ospedale. Lì ho avvertito anche il conforto e la vicinanza della comunità, tutta la vostra vicinanza. Lì ho sperimentato di persona che sul calvario il Padre è ancora più vicino.

Nell’attuale contesto, il rinnovo delle promesse sacerdotali ravviva il senso della nostra unzione. Quell’unzione che risana ferite e divisioni, specie quelle che si annidano nei rapporti interpersonali, all’interno del presbiterio, nelle comunità parrocchiali, nella società. Quell’unzione, da una parte, ci rafforza e ci pone davanti una fraternità sempre da ricostruire e rigenerare, dall’altra, ravviva sentimenti di gratitudine per il dono ricevuto. Grazie all’ordinazione sacerdotale mediante la sacra unzione e l’imposizione delle mani si rigenera in noi la “gioia della paternità” (Papa Francesco, Omelia 26 giugno 2013). Una paternità che ci rende veramente maturi, che ci fa generatori di vita nuova e portatori di speranza. Per questo la gente ci chiama ‘padri’. E ci chiede di esserlo veramente. Non diamo per scontata la paternità. Essa è una grazia che dobbiamo quotidianamente invocare. Non è frutto del nostro saper fare o di diplomazia ecclesiastica, ma dono dello Spirito Santo. Non c’è vera paternità che non venga dal Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo. È una paternità ad immagine della Trinità. Siamo padri, partecipando della paternità del Dio-Trinità di amore.

Anche a noi i fedeli chiedono quello che l’apostolo Filippo chiese a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14, 8), “facci vedere dove sta il Padre”. È una richiesta legittima, quella di poter vedere il Padre attraverso di noi. Amministrando i sacramenti, annunciando il Vangelo e vivendo la carità ogni sacerdote mostra il Padre. Per questo dietro quella richiesta ce n’è un’altra ancora più diretta: “Mostraci che tu sei Padre”. Che il Signore ci conceda di poter rispondere come Gesù a Filippo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Ecco il vero volto del sacerdote: quello che mostra il Padre.

Un fedele quando cerca il sacerdote, lo fa, perché pensa di trovare in lui un padre, capace di ascolto. E quando bussa alla porta dell’ufficio parrocchiale, non va in cerca solo di un documento o di informazioni, ma cerca il volto di un padre, una parola, uno sguardo, un’attenzione. Come preti siamo chiamati ad essere padri nella fede, che non fanno preferenze tra figli di serie A e figli di serie B, che non favoriscano la formazione di gruppi chiusi, poco inclusivi, che non mostrano benevolenza verso alcuni e arroganza e disprezzo verso altri. Quando un fedele chiama il parroco “don”, arciprete, monsignore, esige una relazione di paternità. Questa è l’essenza della paternità sacerdotale. Una paternità che si gioca nella vita quotidiana, nelle parole e nei gesti, nei comportamenti più ordinari.

La sfida che ci attende è quella di recuperare il senso profondo del nostro essere padri. Non sarà facile affrontarla. Per questo invito tutti i fedeli a pregare per i sacerdoti, soprattutto per quelli più anziani e ammalati. Ricordando l’esortazione del Concilio a trattare i presbiteri “con amore filiale, come pastori e padri” (PO, 9).

Papa Francesco, dedicando un anno speciale a San Giuseppe, ha voluto indicarci un modello di paternità in San Giuseppe, che ha vissuto la sua missione di padre

con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende”, “nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio” (Francesco, Omelia, 19 marzo 2013).

Questa nostra società detta “senza padri” ha estremo bisogno di riscoprire la paternità di San Giuseppe, che si è distinta per aver custodito Gesù, averlo amato, educato, protetto. Sul modello di san Giuseppe, la paternità del sacerdote si esprime nell’adempimento fedele del ministero ricevuto, in un atteggiamento di accoglienza nei confronti della comunità che gli viene affidato. Il sacerdote sa di essere mandato in una comunità che gli preesiste, che ha una propria storia, ricca di esperienze positive di crescita, ma anche di ferite e miserie. Sa che deve imparare ad amare quella comunità, per il fatto stesso di essere inviato in essa. Amandola, imparerà a conoscerla e potrà rimodularne il cammino pastorale ed eventualmente avviare nuovi percorsi pastorali. Sa di doverla amare “con cuore di padre”, stare vicino ad essa. Sa di doverne essere custode attento, pronto a cambiare se necessario, senza mai irrigidirsi in posizioni pregiudiziali, che non sono in grado di cogliere i cambiamenti e i bisogni della comunità. E soprattutto si farà servo di tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Farà suo lo stile dell’apostolo Paolo:

…mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro” (1 Cor. 9, 19-23).

Ecco lo stile del sacerdote, che vive la paternità, senza porre al centro sé stesso e i suoi pregiudizi, ma il bene di coloro che è chiamato a custodire. La sua è una paternità a tutto campo, che lo fa costruttore di relazioni dei fedeli con Gesù, dei fedeli tra loro e con il territorio che abitano! È il custodire la gente, l’aver cura di ogni persona, dei bambini, di coloro che sono più fragili, degli anziani e di quelli che abitano le periferie.

Nel corso della visita pastorale ho incrociato il volto sofferente di tanti fratelli e sorelle ammalati. Sono rimasto edificato dalla loro serenità e perseveranza nella fede. È stata una bella sorpresa incontrare una così grande solidarietà e impegno nell’assistenza domiciliare dei propri parenti ammalati. “A mi patri e a mi matri ci penso io”. Una frase che mi ha tanto colpito e fatto riflettere. Contiene un patrimonio spirituale proprio della nostra terra, che come sacerdoti dovremo sapere alimentare e custodire. Il nostro compito è nel saper trasmettere questo patrimonio di valori alle generazioni future.

Cari sacerdoti, sappiamo essere custode dei doni di Dio! Ma per “custodire” dobbiamo aver cura di noi stessi! Sa essere custode chi è capace di vigilare sui suoi sentimenti, sulle sue dinamiche interiori, sul suo cuore: è dal cuore che escono le intenzioni, quelle che costruiscono e quelle che distruggono, quelle che edificano e quelle che creano scandalo e distruggono, quelle umili e quelle che acuiscono il proprio orgoglio.

La nostra paternità pastorale esige il servizio, prevede fatica, lavoro quotidiano. Non ammette rilassamento e ricerca del proprio comodo. Il padre è un lavoratore, che non opera per sé. Un padre sfiduciato, ozioso, alla ricerca del suo benessere più che di quello della comunità, un padre in poltrona, è la controfigura della vera paternità. Quale testimonianza possono offrire a chi è disoccupato quei ministri e sacerdoti, che di lavoro ne hanno, e sufficientemente remunerato, ma disattendono con facilità ai loro doveri e responsabilità? La paternità richiede coraggio, fatica e tanto impegno quotidiano. Come padri non possiamo venir meno alla fatica del nostro ministero: dobbiamo vincere la tentazione della facile delega.

La nostra paternità pastorale si svolge nell’ombra come quella di san Giuseppe: è silenziosa. Nel silenzio, senza lamentarci, con pazienza e coraggio, sopportando il peso della fatica quotidiana. È una paternità esercitata anche attraverso le proprie debolezze. Dio, chiamandoci al sacerdozio, non ha fatto affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, ma anche sulle nostre povertà e debolezze:

…Dio può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza… In mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca” (Patris corde, n. 2).

Se questa è la prospettiva del nostro ministero, dobbiamo sapere far tesoro anche delle nostre debolezze.

Ringrazio il Signore per il coraggio creativo di voi sacerdoti, che mi siete collaboratori, vivendo la paternità nelle comunità parrocchiali. Vi ringrazio per la vostra comprensione, per il servizio prestato, per la comunione che cercate di realizzare tra voi e con me. Sono tanti i sacerdoti che non godono di buona salute. Per essi chiedo a tutti i fedeli una maggiore e tanta preghiera.

Come san Giuseppe si è fatto carico di una paternità che proveniva dal Padre, anche voi sacerdoti fatevi carico della paternità verso tutti. Assieme a voi anch’io mi sforzo di viverla. E se non vi riesco come vorrei e dovrei, chiedo perdono a tutti ed in particolare a chi fosse risentito o offeso da qualche mio comportamento.

Un ricordo speciale desidero averlo nei confronti dei sacerdoti più anziani e malati: don Giuseppe Zancari, un sacerdote fedele, innamorato della Madonna, con parole di Vangelo sempre sulle labbra; mons. Francesco Laganà, testimone fedele di una tradizione sacerdotale che ci edifica; don Filippo Polifrone, che non si arrende di fronte alle debolezze fisiche e segue con fedeltà il nostro cammino ecclesiale; don Pasquale Costa, che vive la sua vita sacerdotale con tanta pace interiore, circondato dall’affetto dei suoi cari. Hanno portato freschezza giovanile don Giovanni Armeni e don Samir Vega della comunità dei Gaetanini. Ma anche i giovani diaconi Gianluca Longo e Giuseppe Pulitanò. Li accogliamo facendo loro spazio e sostenendoli con la nostra testimonianza e paternità.

Concludendo, richiamo la crisi demografica che colpisce la nostra società, che, unitamente alla crisi genitoriale, mette a rischio la famiglia e la sua missione nel mondo. Per questo il santo Padre ha pensato di dedicare un anno speciale a San Giuseppe ed alla “Famiglia Amoris Laetitia”.

Il Signore ci custodisca tutti nel suo amore e conduca noi, pastori e fedeli, nel cammino della vita. Amen!

✠ Francesco Oliva

Vescovo di Locri-Gerace

 

 

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28° Raduno dei Cori Parrocchiali Il 5 maggio 2019 presso la Basilica Concattedrale “Santa Maria Assunta” – Gerace

28° Raduno dei Cori Parrocchiali

5 maggio 2019

Basilica Concattedrale “Santa Maria Assunta” – Gerace

Programma

 

9,30 Arrivo dei partecipanti

10.00 Prove dei canti per la Santa Messa

12,00 Solenne celebrazione eucaristica presieduta da monsignor Francesco Oliva, Vescovo di Locri-Gerace

13,00 Pranzo

16,00 Relazione

17,00 Concerto dei Cori parrocchiali uniti

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E’ risorto per noi!   Il messaggio per la Santa Pasqua di monsignor Francesco Oliva

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Ogni anno è Pasqua, ma non è mai la stessa. Proprio perché non si tratta di semplice ricorrenza. È un evento straordinario che irrompe nella storia, ieri come oggi. Un evento tanto imprevedibile quanto sperato. Anche da chi distratto cammina senza meta. È l’evento che riguarda il Signore che ha vinto la morte, spalancando le porte di quel Sepolcro che era lì a paralizzare le speranze di tutti. Quel sepolcro vuoto ridona vita alle attese dell’uomo, alle nostre attese.

Sono attese di vita, di resurrezione, di pace.

Attese di vita, di una vita rinnovata, passata attraverso il crogiolo della prova e della passione, e ancor più della morte. Quella passione annunciata che aveva scandalizzato e tramortito i discepoli che seguivano Gesù e che quell’annuncio aveva fatto cadere in un’angoscia totale. La morte dopo quella Pasqua non ha più potere, non è più l’ultima parola detta sulla nostra esistenza. Il Dio della vita è più forte di essa, l’ha vinta, ricreando l’umano vero, purificato dall’ingiustizia, dalla violenza e dall’egoismo senza cuore. C’è bisogno oggi di una nuova umanità, capace di sentimenti forti, dello sguardo attento alle sofferenze e alle ferite di chi è smarrito e solo. Troppe morti! Tanti cuori spenti! Tanta violenza, inutile violenza, insopportabile corruzione! Quanti scarti di umanità attorno a noi! Abbiamo bisogno della pasqua, di quel passaggio che rialza la nostra umanità.

Attese di risurrezione. Nessuno vuol vedere frustrati i sogni e le attese. Nessuno vuol vedere finite le sue relazioni più belle, la vita amata sin dal primo momento. Nessuno vuol vedere finite nel nulla le gioie e le speranze. O perdere gli amici più cari, il bene che ha saputo costruire, anche a fatica, l’affetto della famiglia, gli amori che hanno sfidato il tempo che passa. Risorgere è la parola che fa primavera, che fa rinascere tutte queste attese, che fa sperare nella vita e nell’amore che non finisce. Ecco la vera risurrezione: la vita che ritorna a fiorire immersa nell’infinito amore del Dio che crea ed è fonte di vita. Il Signore fa fiorire quel giardino che custodiva il sepolcro nuovo, raccoglie le lacrime della vedova di Nain, che piange il suo figlio morto, rialza l’amico Lazzaro, venuto a mancare in sua assenza, ridona la vita alla figlioletta del centurione, che prende per mano e riconsegna agli affetti più cari. E’ il Signore che fa vivere, che libera dalla disperazione, dalla morte, dalla solitudine, dall’indifferenza, che risolleva e fa risorgere dalle vite spente, dalle vite senza sogno e senza fuoco. Lui che dice di sé: “Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me non morirà in eterno”. Egli è Colui che non desiste finché non ha raggiunto e fatto fiorire l’ultimo ramo della creazione, l’ultimo oscuro angolo del cuore umano.

Attese di pace, la pace vera che libera dal male, dalle ingiustizie e dal peccato. Quel peccato che si annida nelle pieghe più profonde della nostra società, ma anche della nostra vita. Attesa di pace per ogni cuore che torna ad essere riconciliato con sé stesso ed il mondo intero. Quella riconciliazione donata dal Padre al figlio che non sopportava più la sua vicinanza: è riconciliazione con la vita, con la bontà, con l’universo. Non c’è pace senza riconciliazione. Non c’è riconciliazione senza perdono. Non c’è perdono senza accoglienza dell’altro, qualunque ne sia l’origine ed il colore della pelle, il credo religioso. Non c’è accoglienza senza rispetto. Non c’è rispetto senza accoglienza. Non c’è accoglienza senza dialogo. Non c’è dialogo senza fraternità.  Non c’è fraternità senza amore. Non c’è amore senza Dio. Non c’è Dio che non generi vita e risurrezione. Con Lui tutto si ricompone. Anche il cuore diviso.

Ed allora viviamo la Pasqua, viviamola nell’attesa del Risorto. Cerchiamolo ogni giorno nella fitta trama delle nostre ore. Risorgiamo dall’incapacità di perdonare, cancelliamo la memoria amara del male ricevuto, che c’inchioda ai nostri ergastoli interiori e crea legami imbarazzanti. Togliamo la durezza del cuore. S’intoni l’alleluia pasquale, facendo spazio al Dio che ama senza soste. E’ Lui a rimuovere ogni pietra dai nostri sepolcri. Splenda su tutti il suo volto che vince la morte ed infonde eterno amore.

C’è il Risorto con noi! E’ Pasqua per tutti!

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