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Don Mottola: sacerdote generoso ed illuminato Messaggio dell’Amministratore Apostolico della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea S. E. Rev.ma Monsignor Francesco Oliva per la Beatificazione del Servo di Dio Venerabile Francesco Mottola

 

 

Messaggio

dell’Amministratore Apostolico

della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea

S.E. Rev.ma Monsignor Francesco Oliva

per la Beatificazione del Servo di Dio

Venerabile Francesco Mottola

sacerdote e fondatore degli Oblati

e delle Oblate del Sacro Cuore

Diocesi di Mileto – Nicotera – Tropea

 

“Arde ancora la fiamma e,

finché il povero vaso di coccio

non andrà in frantumi, arderà – cercando i cieli”.

(Don Francesco Mottola)

Sacerdote generoso ed illuminato

L’annuncio della data di Beatificazione di don Francesco Mottola è una grande occasione per la nostra terra di Calabria, per ravvivare in noi i doni e i carismi che contempliamo nella sua figura di testimone di fede, di speranza e di carità. San Giovanni Paolo II, rivolgendosi agli Oblati del Sacro Cuore in occasione di un pellegrinaggio a Roma il 15 settembre 2001, ebbe a dire di don Mottola: “Sacerdote generoso e illuminato della vostra cara Diocesi, egli ha lasciato una traccia profonda nella vita ecclesiale e nel contesto culturale e sociale in cui visse, diffondendo l’influsso della sua azione apostolica ben oltre i confini della Calabria”.

E’ vero: don Mottola ha mostrato l’amorevole presenza di Dio in terra di Calabria, particolarmente agli ultimi e ai poveri, restituendo dignità a coloro che definiva i nuju du mundu. Per essi s’è fatto buon Samaritano, spalancando le braccia e aprendo oasi d’amore, chiamate “Case della carità”.

“Sento la carità come un grande poema sinfonico, che scende dal cielo sulla terra e sale dalla terra al cielo”, così scriveva don Mottola illuminato da quella fiamma che ardeva nel suo cuore. Tutta la sua esistenza, da quando era giovane seminarista fino agli anni della sua sofferenza silenziosa, fu sempre tesa in questa direzione: salvare le anime e aiutare la gente umile e povera della sua terra, per la quale era pronto a dare la sua vita.

L’inizio di un cammino di oblazione

Francesco Mottola nasce a Tropea il 3 gennaio del 1901 da Antonio e Domenica Concettina Bragò. Fu il primogenito di molti figli, di cui sopravvissero con lui il fratello Gaetano e la sorella Titina. Al carattere mite e remissivo del fratello Gaetano, faceva riscontro quello vivace, inquieto e curioso del piccolo Francesco, dotato però di un altruismo che lo portava ad essere delicato e sensibile con tutti. L’ambiente familiare, e specialmente la figura materna, influì tanto sulla sua formazione umana e spirituale. Le preghiere recitate insieme, le semplici e naturali espressioni di ringraziamento per il cibo preso, le visite al Santissimo Sacramento, la devozione a Maria Santissima di Romania, venerata nella Cattedrale di Tropea, il contatto con i Sacerdoti che erano soliti frequentare la sua casa, si dimostrarono molto importanti, facilitando l’apertura del suo animo alla volontà di Dio.

Il seme della vocazione sacerdotale trovò terreno favorevole nel suo cuore. Accolto da piccolo nel seminario di Tropea nel 1911, sarà lui stesso, dopo molti anni, a dare un’immagine di quello che era il “suo” seminario: “Il seminario unito alla Cattedrale da una scala interna forma un tutt’uno con questa, ha come suo, il campanile del Duomo… che sotto incrostazioni barocche, attendeva la risurrezione; ma a noi piccoli, quel chiesone vasto, quelle decorazioni ingenue, quei lampadari di cristallo piacevano, anche per il contrasto con la cappella del seminario nuda e disadorna”. Negli studi riusciva assai bene: lo confermano sia i voti che riportava in modo brillante sia la testimonianza dei suoi compagni che lo indicavano come il più bravo.

Quando aveva appena dodici anni fece la prima grande esperienza della sofferenza: la mamma, che da qualche mese aveva dato alla luce la piccola Titina, in seguito ad una grave crisi depressiva, morì il 21 giugno 1913. Questa perdita segnò di soffusa tristezza la sua infanzia e lo aprì nello stesso tempo al mistero del dolore ed alla sua accettazione nella luce della speranza cristiana. Finiti gli studi ginnasiali, nel 1917 lasciò Tropea per compiere gli studi filosofici-teologici presso il Pontificio Seminario San Pio X di Catanzaro. Su di esso si espresse con parole affettuose e nostalgiche: “Una costruzione solida, quadrata, bella… era il nostro Seminario Regionale: l’Università, come dicevano immancabilmente i carrozzieri di Catanzaro, che ci portavano lassù; ma tutti noi di Calabria sentivamo la gioia del dono che il Papa ci aveva fatto, così regalmente; ci pareva come un riconoscimento pontificale all’intelligenza di questa terra che non ha nessun istituto di cultura superiore… L’aveva voluto il Papa: Pio X Santo, nel cuore della Calabria – cor cordium – per raccogliere in unità i cuori di tutti i calabresi. Si viveva in un’atmosfera di gloria non come vecchi nobili decaduti, ma come giovani che vivono il passato per attuare le glorie del presente”. Nel 1918 si sentì come soggiogato dalla grazia fino a decidere di donarsi completamente al Signore “in perfetta oblazione”, desiderando essere “un certosino della strada”.

La forte carica di autenticità e di impegno costruttivo di alcuni suoi compagni di seminario influì notevolmente nel suo animo, tanto che, insieme, diedero vita ad un piccolo centro di fraternità, di studio e di apostolato, denominato “Circolo di Cultura Calabrese”. Lo Statuto da loro redatto, anche se oggi può apparire frutto di entusiasmo giovanile, denota in questi giovani calabresi il vivo desiderio di aprire cuore e mente alle più impegnative esigenze dello spirito. L’ultimo anno di seminario fu costretto a trascorrerlo quasi sempre a Tropea a causa della sua malferma salute. Ordinato suddiacono a Catanzaro il 10 maggio 1923, ricevette il diaconato a Tropea il 25 dicembre e, sotto lo sguardo materno della Madonna di Romania, il 5 aprile 1924 fu ordinato Sacerdote.

Tutto senza riserve

Dotato di una personalità vivace e di ricca sensibilità, don Mottola affrontò fin dagli anni della formazione sacerdotale un cammino ascetico esigente, alimentato dalla quotidiana preghiera, per dominare il proprio esuberante carattere e identificarsi sempre più a Cristo.

Nel Regolamento di vita scrive: “La ruota maestra della mia vita spirituale sarà l’abbandono, completo e assoluto, nel Cuore di Gesù”. Questo totale affidamento a Cristo trova il suo centro e la sua essenza nell’Eucarestia e si configura come una “oblazione” senza riserve a Dio e ai fratelli. La parola chiave della sua vita, della sua spiritualità ed azione è proprio “oblazione”.

Alcuni giorni prima della sua ordinazione annotava nel Diario: “Non ti chiedo, Signore, che di amarti assai, fino alla follia… Vorrei poter scrivere con l’anima che vuol morire per te. Tu puoi farmi santo: a questo ideale io sacrificherei tutto il mio povero essere, tutta la miseria della mia vita… Gesù dammi, se vuoi, le sofferenze della tua vita pubblica, ma anche il tuo amore, l’ignominia e il tuo amore, il disprezzo e il tuo amore… Il mio sacerdozio! Gesù, percuotimi, ma dammi un sacerdozio santo. Quell’ora sarà la più bella della mia vita: verrò a te con la corona di spine, ma col cuore ardente del desiderio di amarti… Lo so, o tutto o niente: è il tuo dilemma ferreo; ebbene tutto. Tutto, tutto: senza riserve, è il mio fermo proposito in questa vigilia d’armi e di sofferenza”.

Da giovane sacerdote mostrò subito grande passione per l’attività pastorale, anche se era solito ripetere a sé stesso e agli altri che non bisognava mai lasciarsi sfibrare dal lavoro che andava sempre a detrimento dello spirito. Convinto com’era che la santità non consiste nella sola contemplazione e neppure nell’azione-attivismo, visse la sua vita sacerdotale in perfetta oblazione. Dal 1929 al 1942 fu chiamato a dirigere il Seminario vescovile di Tropea, che, in tale periodo, diventerà un “Cenacolo profumato di Eucarestia”.

“Sto bene, qui c’è Gesù”

Cardine della sua attività sacerdotale era l’Eucarestia. Aveva trasformato la cappella dei Nobili di Tropea in un Cenacolo di Adorazione Eucaristica e, proprio da questa cappella, ai piedi di Gesù Eucaristico, presero consistenza le sue opere di apostolato, che più tardi diedero luogo alle “Case” di carità.

Il sacramento della Confessione era per lui “segno efficace della grazia”, ma anche uno spazio, che, sul piano naturale ed umano, offre la possibilità di salvare e far maturare l’individualità dell’uomo. La sua arte di confessore non era tanto una tecnica quanto l’espressione della sua vita intensamente spirituale e l’attuazione della carità verso Dio e verso il prossimo.

Appena trentenne venne affidato al giovane sacerdote il compito delicatissimo di penitenziere della Cattedrale di Tropea. Numerosissimi erano i penitenti che a lui accorrevano: con la sua estrema delicatezza unita ad un’evangelica fermezza, il suo tatto, la sua bontà, la sua umiltà, guidava le anime all’unione con Dio.

“Come confessore, diventava un amico che voleva sinceramente aiutarci a divenire amanti di Dio e del prossimo e, spesso, lo si trovava al confessionale anche dopo mezzogiorno. Nei mesi estivi di gran calura, sapendolo sofferente, lo chiamavo per un momento di ristoro e diceva: “Sto bene, qui c’è Gesù: Tutto, tutto, tutto…” (P. Bonaventura Danza, Vita di Don Mottola).

Consapevole che la fede fiorisce nell’amore e dall’ascolto della Parola divina, Don Mottola fece delle sue doti intellettuali non comuni una pista di lancio per la sua missione ed il suo apostolato. Non avviliva la sua brillante perizia oratoria con puri accorgimenti umani e letterari, ma sapeva tradurla con passione, saggezza ed intelligenza. Parlava con profondità di dottrina e con semplicità; spesso era chiamato a guidare i Ritiri e gli Esercizi Spirituali dei Sacerdoti ed invitato nelle varie Parrocchie di Tropea, di Amantea, di Oppido Mamertina, di Nicotera per i Ritiri dell’Azione Cattolica.

Nota dominante e luminosissima della sua attività sacerdotale fu l’amore, attento e costante, per i sacerdoti. Li accoglieva con cuore delicato e paterno, dedicando molto suo tempo all’ascolto. Per molti di loro la sua parola era come un tocco divino, gli incontri con lui un sollievo e un riprendere coraggio. Avviò un’opera di santificazione del clero già con alcuni piccoli seminaristi di Tropea, durante l’anno scolastico 1927-1928. Lo faceva attraverso il sacramento della Confessione, le conferenze e la corrispondenza epistolare, seguendoli con grande impegno e serietà sino all’ordinazione sacerdotale.

Lo stile del movimento oblato

Don Mottola ha dato vita al movimento oblato: “Dell’ideale oblato, ne parlai nel 1928; ma l’idea mi tormentava l’animo da un pezzo e qualche tentativo di unione sacerdotale s’era già fatto attraverso i ‘Cenacoli’. Ai nostri giorni– diceva – è necessario uno sforzo d’interiorità, far di ogni sacerdote un Cenobita della strada: gli oblati rispondono a questa necessità”. Gli inizi degli Oblati Laici risalgono al 1935, quando era rettore del Seminario di Tropea. Ad alcuni giovani che settimanalmente si recavano da lui per consigli comunicava l’ideale di un apostolato dinamico, animato dalla preghiera tendenzialmente contemplativa, ispirato ai consigli evangelici, vissuto fuori del convento, nella quotidianità, attraverso l’esercizio delle varie professioni, nella famiglia, nelle comunità ecclesiali e nell’impegno sociale. Il senso dell’apostolato oblato consiste nell’unire contemplazione e azione come due polmoni che respirano insieme.

Il gruppo degli Oblati Laici, sebbene ufficialmente sia sorto dopo quello dei Sacerdoti Oblati e delle Oblate del Sacro Cuore, era per lui il “primogenito dell’Idea”, l’Idea che conduce al Regno di Dio. Sin dall’inizio del suo lavoro apostolico, Don Mottola aveva avuto delle collaboratrici impegnate nelle sue varie iniziative: assistenza ai poveri, collaborazione in Seminario, attività varie nell’Azione Cattolica. Tanti ed impegnativi erano le urgenze che richiedevano un tempo pieno di dedizione. Le Oblate si dedicavano all’insegnamento del catechismo, specialmente ai rurali ed agli umili, a promuovere l’Azione Cattolica, a servire Cristo in quanti la sofferenza fisica o morale aveva emarginati. Le considerava Carmelitane della strada. Ad esse si aggiungevano le cosiddette Serve della Carità e le Piccole Lampade.

Attendevano tutte alla perfezione spirituale mediante la preghiera contemplativa e l’apostolato: restare nel mondo per essere pronte ad ascoltare la voce del dolore e delle solitudini.

Don Mottola non è mai stato semplicemente un intellettuale, un uomo di cultura, nonostante la profondità e la ricchezza del suo pensiero, ma ha sempre cercato di vivere la logica dell’incarnazione tra le vicende umane, sociali e spirituali della sua gente. Mai fu vittima della tentazione di estraniarsi dal mondo o di chiudersi nella cella del suo mondo: i suoi non erano i sogni astratti di chi vive fuori dalla realtà, ma espressione del grande desiderio di preoccuparsi degli altri, di avere gli occhi aperti sul bisogno del fratello. Portare Cristo agli altri era la sua vera inquietudine, sempre mosso dalla passione di testimoniare Cristo apertamente, senza riserve.

La sua era una spiritualità contemplativa e attiva, perfezionata dalla dimensione oblativa: vivere come certosini e carmelitane della strada, dove la cella è il cuore, lo spazio dell’offerta è la vita donata nel servizio del proprio stato di vita. Amava dire: “l’apostolato di fatto scende dalla pienezza della contemplazione: come dai nevai la forza dei fiumi, che pur tornano al mare ansiosi di azzurro, per essere riassorbiti dal sole”. L’apostolato per lui era un contemplare ed immergersi nel mistero della Trinità, nel mistero di Cristo e della Chiesa. Alla luce di questa contemplazione era possibile vedere e amare l’uomo, il creato e la realtà quotidiana. Era questo lo sguardo e il cuore che doveva avere ogni presbitero chiamato a narrare con la propria vita l’amore di Dio per il suo popolo. Era questo il sogno di don Mottola che attirò a sé un gruppo di donne, che formeranno poi l’Istituto secolare delle Oblate del Sacro Cuore, un gruppo di donne che “fossero il Cristo che passa ancora sulla terra di Calabria, vivendo l’apostolato del profumo divino da lasciare attorno a loro”. Per fare ciò, occorreva farsi “prestare gli occhi divini di Cristo e attraverso le sue pupille, vedere tutte le cose. Le cose acquistano così unità, verità e bellezza”.

Le Oblate del Sacro Cuore ebbero il riconoscimento vescovile nel 1968 e quello pontificio nel 1975.

Certosini della strada

Essere certosini della strada: ecco il vero carisma e la missione che don Mottola affidava agli Oblati e alle Oblate e a tutti i suoi figli e figlie spirituali. Ma era anche la missione che riconosceva propria di ogni presbitero e di ogni cristiano. Una intuizione profetica che scaturiva dall’idea che non vi può essere azione senza contemplazione: la contemplazione è la sorgente autentica di ogni azione e apostolato sia dei sacerdoti che dei laici.

Non c’è esperienza cristiana che non sia una sintesi armonica tra contemplazione e azione,

inscindibilmente legate tra loro, secondo il noto principio: «Contemplare et contemplata aliis tradere”, contemplare e dare agli altri le cose contemplate.

Sul modello di Maria, alla quale don Mottola faceva sempre riferimento con fiducia filiale, imitandola sia nella “contemplazione” che nel “servizio”, e additando ai suoi Oblati questa perfetta integrazione come una vera e propria “santità sociale”, una forma di apostolato efficace per i nostri tempi. Questa spiritualità, che, non rinunciando al primato della contemplazione, sprona a vivere i consigli evangelici nel mondo e ad accogliere i bisogni dei fratelli, non poteva non essere feconda di iniziative e di attività a favore dei poveri e dei bisognosi.

Le Case della Carità

Fiore all’occhiello della sua attività caritativa sono le numerose istituzioni assistenziali, definite “Case della Carità”. Al centro della sua missione sacerdotale vi era sempre posto per i poveri, per gli ultimi, per i “nuju du mundu”, per “lo scarto della società”, secondo l’espressione di papa Francesco. Diceva: “Noi siamo al servizio dei poveri sia dei vecchi che dei bambini; quindi, si bandisca da noi ogni egoismo. I vecchi si venerino come cosa sacra, i bambini si educhino con cura materna.

Ad ognuno si cerchi di dare la propria via: lo studio, il cucito, il ricamo ecc. Prima si dia una formazione solida, fatta non di sentimento, ma di pensiero, di fede, di carità. Si formano non con la rigidezza di un Istituto, ma con l’amore di una famiglia: la nostra grande famiglia”. Per questa umanità umiliata e privata della sua dignità ideò una “Casa d’oro”, “una casa grande, la casa di tutti, una casa bella, prospiciente il mare, dall’orizzonte largo”. La Casa della Carità doveva essere uno spazio di umanità, “che accoglie i rifiuti di tutti. Non chiede nulla, ma ha bisogno di tutto e aspetta ogni giorno che arde, l’adempimento della promessa di Cristo Gesù” (Faville della lampada).

Questo suo sogno di grande bellezza troverà la sua realizzazione nella prima Casa della carità, che fu inaugurata l’8 dicembre 1936. Un tugurio con tre vecchiette e due bambine.

L’inizio umile di un percorso di carità senza limiti. Ad essa seguì la realizzazione di altre case della carità a Tropea marina, a Parghelia, a Limbadi, a Vibo Valentia, a Roma e dopo la sua morte la Casa di preghiera “Oasi Maranatha” in località Corello e la Casa di riposo “Don Mottola” a Tropea.

Come oro nel crogiolo

Nei primi mesi del 1941, appena quarantenne, cominciò a manifestare i segni di un’evidente stanchezza. La fragilità del suo stato fisico traspare già nel suo diario: “Da Reggio a Tropea, da Tropea a Firenze, e prima di Reggio a Salerno, ho peregrinato da anima a anima. Ma sento tremendo il vuoto di una conquista che non sia conquista interiore di Dio… Sono ora alla casa della Marina, la Casa tua!… Domani sarò a Limbadi, lunedì riapro il Seminario e comincia la mia… pena. Avanti! Ti sento, Gesù, più che mai in me. Ma bisogna che io muoia. È urgentemente necessario che io crocifigga il mio pensiero, il mio cuore, la mia volontà. Sono tre croci mie accanto alla tua divina!”.

Era verso giugno del 1942, quando, giunto alla stazione di Reggio, Don Mottola cadde a terra privo di sensi. Iniziava così il suo calvario durato ben ventisette anni! Ebbe modo di vivere il Vangelo della sofferenza, senza mai perdersi d’animo. Non uscì mai dalla sua bocca – come afferma la sorella Titina – “un’espressione d’insofferenza… Ha sempre accettato con serenità e gioia… In tutti questi anni ha sempre rispettato con estrema puntualità gli impegni di vita cristiana”. A tutti infondeva forza e speranza. Bastava vederlo celebrare la Santa Messa, per rendersi conto della profonda relazione che aveva con Dio. L’immobilità fisica non fermò, anzi rese più intenso ed efficace il raggio della sua influenza, incidendo in profondità nelle coscienze e lasciandoci una eredità spirituale di grande attualità. Mai si rese estraneo al mondo che lo circondava.

Seguiva con interesse ed entusiasmo i lavori conciliari. Il dolore lo portò ad offrirsi come vittima in una oblazione continua per il raggiungimento di una santità contemplativa.

All’alba del 29 giugno 1969, solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, rese il suo spirito a Dio, dopo essersi speso e consumato sino all’ultimo giorno.

“Eccomi, eccomi, eccomi qui…’. Sono le parole che possono esprimere in estrema sintesi la ‘meravigliosa avventura’ di una vita sacerdotale interamente offerta.

Un cammino di santità per tutti

Dopo la sua morte, ben presto fu invocata l’apertura dell’inchiesta diocesana sulle virtù.  Per questo Don Michele Loiacono ed Irma Scrugli, eredi spirituali del Servo di Dio, l’8 dicembre 1973, nominarono Don Domenico Pantano postulatore diocesano per il Processo cognizionale per la Causa di Beatificazione. Il 24 dicembre 1973 Don Pantano presentò il Libello per l’apertura della Causa al Vescovo del tempo Mons. Vincenzo De Chiara, che il 19 gennaio 1974 autorizzava una prima raccolta del materiale necessario. Il vescovo del tempo Domenico Tarcisio Cortese il 26 febbraio 1980 si rivolse alla competente Congregazione delle Cause dei Santi, che il 13 ottobre 1981 diede il nulla osta all’inchiesta diocesana aperta solennemente, alla presenza dell’episcopato calabro l’11 febbraio 1982. Il Tribunale diocesano concluse i lavori il 29 giugno 1988. Esaminata la documentazione, nel corso della fase romana Don Mottola è stato dichiarato Venerabile da Papa Benedetto XVI il 17 dicembre Il 9 dicembre 2011 è stato nominato nuovo postulatore don Enzo Gabrieli che ha seguito la seconda fase, il processo sul miracolo ad un giovane seminarista (Felice Palamara), la notte tra il 13 e il 14 maggio 2010 attribuito all’intercessione del Venerabile don Francesco Mottola. Sulla guarigione, ritenuta miracolosa, presso la curia diocesana di Mileto-NicoteraTropea dall’8 maggio 2012 al 5 aprile 2013 fu istruita l’Inchiesta diocesana, passata alla fase romana nel 2014; dopo l’esame della consulta medica, il Congresso dei teologi e la Sessione ordinaria dei padri Cardinali e Vescovi, il 2 ottobre 2019 papa Francesco ha ordinato la firma del Decreto per la beatificazione.

In data 12 agosto 2021 il Santo Padre Francesco ha dato via libera alla celebrazione del Rito di Beatificazione, delegando il card. Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione della Causa dei Santi. Con la Beatificazione, la Chiesa addita e propone il sacerdote don Mottola come un maestro, un testimone vero di fede, di speranza e di carità, un sacerdote cui i presbiteri tutti, e della Calabria in particolare, possono e debbono guardare con fiducia e speranza. Un sacerdote che ha saputo scrivere con la sua vita una testimonianza di amore.

San Giovanni Paolo II, incontrando a Catanzaro i sacerdoti calabresi, indicava loro questi due modelli: “… i servi di Dio don Francesco Mottola di Tropea e il P. Gaetano Catanoso di Reggio Calabria, che hanno vissuto la loro vita sacerdotale dando quotidiana e coerente testimonianza di una forte tensione per l’elevazione morale e religiosa e per il riscatto sociale della propria gente”. Padre Gaetano Catanoso è già Santo, don Mottola sta per essere proclamato Beato.

In don Mottola è possibile vedere il vero volto del sacerdote, di ogni sacerdote, ed in particolare quello dei Sacerdoti del Sacro Cuore, chiamati a vivere da “cenobiti” della strada. Il suo è un percorso di santità che vale per tutti! Don Mottola amava ripetere: “L’apostolato di fatto – per cui abbiamo rifiutato la cella e siamo rimasti viandanti nel mondo – discende dalla pienezza della contemplazione: come dai nevai la forza dei fiumi, che pur tornano al mare, ansiosi di azzurro, per essere riassorbiti dal sole”.

Il nostro tempo ha bisogno di spiritualità, recuperando il valore dell’interiorità. E’ un tempo difficile che invoca il ‘movimento oblato’, il dinamismo della carità e della globalizzazione della solidarietà. Quello che ha dato vita alle Oblate ed agli Oblati del Sacro Cuore, che, solo seguendo la via indicata da don Mottola, sono in grado di esprimere la loro donazione a Dio ed ai sofferenti nella vita frenetica del nostro mondo. Il loro carisma può fare tanto bene alla Chiesa ed alla società. E’ il carisma che porta ad “attendere alla perfezione spirituale mediante la preghiera contemplativa e l’apostolato: restare nel mondo per essere maggiormente pronte ad avvertire la voce del dolore e della solitudine” (don Mottola). E’ il carisma che ogni cristiano, giovane o adulto, celibe o coniugato, può vivere nell’adempimento dei doveri del proprio stato sia collaborando nelle attività parrocchiali che impegnandosi nell’animazione della vita familiare con “il ritorno di Cristo nelle famiglie”.

Tempo di grazia!

E’ un tempo di grazia l’attesa e la beatificazione del nostro amato don Mottola, che avverrà il 10 ottobre 2021: il venerabile Servo di Dio sarà elevato all’onore degli altari ed iscritto nel Calendario dei Santi di questa Chiesa. Un tempo di grazia per imparare a conoscere ed amare un sacerdote vero, che non si piegava ai compromessi ed alle mezze misure. “Lo so o tutto o niente: è il tuo dilemma ferreo, ebbene ho scelto: tutto!” Eccomi tutto! Tutto per Cristo e i fratelli! A tempo pieno col Signore, senza finzioni o ipocrisie! Vedere tutto in Cristo e conseguentemente amare tutto in Lui. “Amore di Cristo e dei fratelli in Cristo, dei fratelli che sono Cristo”. Una visione cristocentrica quella di don Mottola, ancora tanto preziosa. La sua è la testimonianza di un innamorato di Cristo, sempre pronto a seguirlo anche quando c’era da affrontare lunghi anni di malattia, un calvario attraverso il quale era possibile la conformazione a Cristo Crocifisso. “Usque ad sanguinem!”, come soleva dire. Era l’oblazione del sacerdote don Mottola, che vedeva il sacerdote come l’uomo che fa l’Eucaristia, come Cristo si fa Eucaristia: “Diventare buon pane, per essere mangiato fino all’ultima briciola”. Dal sacerdote si aspettava “un amore senza ritorni, senza riposi, senza confini”.

Don Mottola è stato un prete vero, semplicemente prete. Esemplarmente attento ad ogni prete, alla loro formazione a tutto campo. Loro padre nella fede e nella vita. Un riferimento importante per il clero calabrese. Per l’attualità dei suoi insegnamenti e la testimonianza di una vita sacerdotale interamente donata a Cristo ed ai fratelli. Questa beatificazione è un evento di grazia per tutti i sacerdoti di Calabria.

Riviviamo con il beato don Mottola la Via Crucis nella nostra Calabria, umiliata dai roghi dell’indifferenza e del disprezzo della casa comune. In modo da poter dire con Lui:

“Nella mia terra di Calabria, ho rifatto

In ginocchio la Via Crucis: son passato

Per tutti i villaggi, sono sceso in tutti

I tuguri, ho transitato per tutte le quattordici stazioni.

Ho sentito il singhiozzo della mia gente

Nel mio povero cuore: la gente di Calabria

Nel suo itinerario dolorosissimo non ha

conforto – come Gesù.

Ma è Gesù e bisogna confortarlo

Nella salita necessaria al Calvario”

(Faville della lampada, 97).

Affidiamoci all’intercessione del nostro Beato e a quella della Beata Vergine Maria invocata a Tropea con il titolo di Madonna di Romania. A Lei don Mottola tante volte ha elevato il suo sguardo e ha affidato sé stesso e la nostra terra di Calabria.

Tropea, 9 Settembre 2021

Festa della Madonna di Romania

✠ Francesco Oliva

Amministratore Apostolico

©2023 Pandocheion – Casa che accoglie. Diocesi di Locri-Gerace. Tutti i diritti sono riservati.

Sul modello del sacerdozio di Cristo Santa Messa Crismale (Basilica minore di Gerace – 1 aprile 2021) - Omelia di S.E. monsignor Francesco Oliva

Santa Messa Crismale

(Basilica minore di Gerace – 1 aprile 2021)

 

Carissimi Confratelli nel Sacerdozio,

Diaconi Religiosi e Religiose,

Fedeli tutti,

 

Il Vangelo ci ha presentato Gesù, che, dopo aver letto il brano del profeta Isaia, afferma che “oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). La profezia di Isaia si compie nell’‘oggi’. Gesù annuncia anche il compiersi dell’anno di grazia nell’oggi della sua presenza tra noi. La sua venuta è tempo di pienezza. Anche il nostro tempo, così complesso e difficile, appartiene all’ “oggi” di Cristo:

Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).

Questa “bella notizia” trova compimento nel nostro ministero sacerdotale. Noi siamo il “compimento”, la pienezza di quell’annuncio, essendo costituiti “per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Ebr 5, 1). Sul modello del sacerdozio di Cristo compiamo le azioni che Egli stesso ha compiuto. Egli ha scelto la via dell’incarnazione, dell’essere vicino, tra la gente, intervenendo di fronte alle miserie umane e mostrando il Regno di Dio. È questa la via maestra della Redenzione, che raggiunge i più bisognosi, gli oppressi, i prigionieri, i ciechi, gli ultimi della società. Gesù esce dal tempio, per andare incontro agli smarriti e agli sfiduciati. Sceglie la via della vicinanza, quella che la gente chiede ai sacerdoti:

Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”, “Lo so, padre, che Lei è molto occupato” – dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti – dice la gente –: coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono… Preti vicini, che parlano con tutti” (papa Francesco, Omelia Messa crismale 2018).

Oggi rinnoviamo le promesse sacerdotali, per stringerci ancora di più a Gesù e confermare il nostro impegno a lavorare con maggiore impegno, “quando i giorni sono cattivi” (Ef 5, 16).

Vorrei chiedere a me e a ciascun sacerdote: Che cosa questi mesi di pandemia stanno suscitando in noi? Quali inquietudini e attese? Quali preoccupazioni pastorali?  In che modo stiamo alimentando la fede, la speranza e la carità? Su questi interrogativi mi sono soffermato nella recente lettera per il tempo di Quaresima e Pasqua “Verso la Pasqua, alba di un nuovo giorno”. In essa ho provato ad aprirvi il mio cuore ed a parteciparvi tutto ciò che ho sperimentato in questo tempo. Un tempo di prova anche per me. A diretto contatto con la malattia: tra medici ed infermieri, in una stanza d’ospedale. Il Signore mi è stato vicino nel silenzio di una camera d’ospedale. Lì ho avvertito anche il conforto e la vicinanza della comunità, tutta la vostra vicinanza. Lì ho sperimentato di persona che sul calvario il Padre è ancora più vicino.

Nell’attuale contesto, il rinnovo delle promesse sacerdotali ravviva il senso della nostra unzione. Quell’unzione che risana ferite e divisioni, specie quelle che si annidano nei rapporti interpersonali, all’interno del presbiterio, nelle comunità parrocchiali, nella società. Quell’unzione, da una parte, ci rafforza e ci pone davanti una fraternità sempre da ricostruire e rigenerare, dall’altra, ravviva sentimenti di gratitudine per il dono ricevuto. Grazie all’ordinazione sacerdotale mediante la sacra unzione e l’imposizione delle mani si rigenera in noi la “gioia della paternità” (Papa Francesco, Omelia 26 giugno 2013). Una paternità che ci rende veramente maturi, che ci fa generatori di vita nuova e portatori di speranza. Per questo la gente ci chiama ‘padri’. E ci chiede di esserlo veramente. Non diamo per scontata la paternità. Essa è una grazia che dobbiamo quotidianamente invocare. Non è frutto del nostro saper fare o di diplomazia ecclesiastica, ma dono dello Spirito Santo. Non c’è vera paternità che non venga dal Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo. È una paternità ad immagine della Trinità. Siamo padri, partecipando della paternità del Dio-Trinità di amore.

Anche a noi i fedeli chiedono quello che l’apostolo Filippo chiese a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14, 8), “facci vedere dove sta il Padre”. È una richiesta legittima, quella di poter vedere il Padre attraverso di noi. Amministrando i sacramenti, annunciando il Vangelo e vivendo la carità ogni sacerdote mostra il Padre. Per questo dietro quella richiesta ce n’è un’altra ancora più diretta: “Mostraci che tu sei Padre”. Che il Signore ci conceda di poter rispondere come Gesù a Filippo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Ecco il vero volto del sacerdote: quello che mostra il Padre.

Un fedele quando cerca il sacerdote, lo fa, perché pensa di trovare in lui un padre, capace di ascolto. E quando bussa alla porta dell’ufficio parrocchiale, non va in cerca solo di un documento o di informazioni, ma cerca il volto di un padre, una parola, uno sguardo, un’attenzione. Come preti siamo chiamati ad essere padri nella fede, che non fanno preferenze tra figli di serie A e figli di serie B, che non favoriscano la formazione di gruppi chiusi, poco inclusivi, che non mostrano benevolenza verso alcuni e arroganza e disprezzo verso altri. Quando un fedele chiama il parroco “don”, arciprete, monsignore, esige una relazione di paternità. Questa è l’essenza della paternità sacerdotale. Una paternità che si gioca nella vita quotidiana, nelle parole e nei gesti, nei comportamenti più ordinari.

La sfida che ci attende è quella di recuperare il senso profondo del nostro essere padri. Non sarà facile affrontarla. Per questo invito tutti i fedeli a pregare per i sacerdoti, soprattutto per quelli più anziani e ammalati. Ricordando l’esortazione del Concilio a trattare i presbiteri “con amore filiale, come pastori e padri” (PO, 9).

Papa Francesco, dedicando un anno speciale a San Giuseppe, ha voluto indicarci un modello di paternità in San Giuseppe, che ha vissuto la sua missione di padre

con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende”, “nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio” (Francesco, Omelia, 19 marzo 2013).

Questa nostra società detta “senza padri” ha estremo bisogno di riscoprire la paternità di San Giuseppe, che si è distinta per aver custodito Gesù, averlo amato, educato, protetto. Sul modello di san Giuseppe, la paternità del sacerdote si esprime nell’adempimento fedele del ministero ricevuto, in un atteggiamento di accoglienza nei confronti della comunità che gli viene affidato. Il sacerdote sa di essere mandato in una comunità che gli preesiste, che ha una propria storia, ricca di esperienze positive di crescita, ma anche di ferite e miserie. Sa che deve imparare ad amare quella comunità, per il fatto stesso di essere inviato in essa. Amandola, imparerà a conoscerla e potrà rimodularne il cammino pastorale ed eventualmente avviare nuovi percorsi pastorali. Sa di doverla amare “con cuore di padre”, stare vicino ad essa. Sa di doverne essere custode attento, pronto a cambiare se necessario, senza mai irrigidirsi in posizioni pregiudiziali, che non sono in grado di cogliere i cambiamenti e i bisogni della comunità. E soprattutto si farà servo di tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Farà suo lo stile dell’apostolo Paolo:

…mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro” (1 Cor. 9, 19-23).

Ecco lo stile del sacerdote, che vive la paternità, senza porre al centro sé stesso e i suoi pregiudizi, ma il bene di coloro che è chiamato a custodire. La sua è una paternità a tutto campo, che lo fa costruttore di relazioni dei fedeli con Gesù, dei fedeli tra loro e con il territorio che abitano! È il custodire la gente, l’aver cura di ogni persona, dei bambini, di coloro che sono più fragili, degli anziani e di quelli che abitano le periferie.

Nel corso della visita pastorale ho incrociato il volto sofferente di tanti fratelli e sorelle ammalati. Sono rimasto edificato dalla loro serenità e perseveranza nella fede. È stata una bella sorpresa incontrare una così grande solidarietà e impegno nell’assistenza domiciliare dei propri parenti ammalati. “A mi patri e a mi matri ci penso io”. Una frase che mi ha tanto colpito e fatto riflettere. Contiene un patrimonio spirituale proprio della nostra terra, che come sacerdoti dovremo sapere alimentare e custodire. Il nostro compito è nel saper trasmettere questo patrimonio di valori alle generazioni future.

Cari sacerdoti, sappiamo essere custode dei doni di Dio! Ma per “custodire” dobbiamo aver cura di noi stessi! Sa essere custode chi è capace di vigilare sui suoi sentimenti, sulle sue dinamiche interiori, sul suo cuore: è dal cuore che escono le intenzioni, quelle che costruiscono e quelle che distruggono, quelle che edificano e quelle che creano scandalo e distruggono, quelle umili e quelle che acuiscono il proprio orgoglio.

La nostra paternità pastorale esige il servizio, prevede fatica, lavoro quotidiano. Non ammette rilassamento e ricerca del proprio comodo. Il padre è un lavoratore, che non opera per sé. Un padre sfiduciato, ozioso, alla ricerca del suo benessere più che di quello della comunità, un padre in poltrona, è la controfigura della vera paternità. Quale testimonianza possono offrire a chi è disoccupato quei ministri e sacerdoti, che di lavoro ne hanno, e sufficientemente remunerato, ma disattendono con facilità ai loro doveri e responsabilità? La paternità richiede coraggio, fatica e tanto impegno quotidiano. Come padri non possiamo venir meno alla fatica del nostro ministero: dobbiamo vincere la tentazione della facile delega.

La nostra paternità pastorale si svolge nell’ombra come quella di san Giuseppe: è silenziosa. Nel silenzio, senza lamentarci, con pazienza e coraggio, sopportando il peso della fatica quotidiana. È una paternità esercitata anche attraverso le proprie debolezze. Dio, chiamandoci al sacerdozio, non ha fatto affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, ma anche sulle nostre povertà e debolezze:

…Dio può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza… In mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca” (Patris corde, n. 2).

Se questa è la prospettiva del nostro ministero, dobbiamo sapere far tesoro anche delle nostre debolezze.

Ringrazio il Signore per il coraggio creativo di voi sacerdoti, che mi siete collaboratori, vivendo la paternità nelle comunità parrocchiali. Vi ringrazio per la vostra comprensione, per il servizio prestato, per la comunione che cercate di realizzare tra voi e con me. Sono tanti i sacerdoti che non godono di buona salute. Per essi chiedo a tutti i fedeli una maggiore e tanta preghiera.

Come san Giuseppe si è fatto carico di una paternità che proveniva dal Padre, anche voi sacerdoti fatevi carico della paternità verso tutti. Assieme a voi anch’io mi sforzo di viverla. E se non vi riesco come vorrei e dovrei, chiedo perdono a tutti ed in particolare a chi fosse risentito o offeso da qualche mio comportamento.

Un ricordo speciale desidero averlo nei confronti dei sacerdoti più anziani e malati: don Giuseppe Zancari, un sacerdote fedele, innamorato della Madonna, con parole di Vangelo sempre sulle labbra; mons. Francesco Laganà, testimone fedele di una tradizione sacerdotale che ci edifica; don Filippo Polifrone, che non si arrende di fronte alle debolezze fisiche e segue con fedeltà il nostro cammino ecclesiale; don Pasquale Costa, che vive la sua vita sacerdotale con tanta pace interiore, circondato dall’affetto dei suoi cari. Hanno portato freschezza giovanile don Giovanni Armeni e don Samir Vega della comunità dei Gaetanini. Ma anche i giovani diaconi Gianluca Longo e Giuseppe Pulitanò. Li accogliamo facendo loro spazio e sostenendoli con la nostra testimonianza e paternità.

Concludendo, richiamo la crisi demografica che colpisce la nostra società, che, unitamente alla crisi genitoriale, mette a rischio la famiglia e la sua missione nel mondo. Per questo il santo Padre ha pensato di dedicare un anno speciale a San Giuseppe ed alla “Famiglia Amoris Laetitia”.

Il Signore ci custodisca tutti nel suo amore e conduca noi, pastori e fedeli, nel cammino della vita. Amen!

✠ Francesco Oliva

Vescovo di Locri-Gerace

 

 

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La Quaresima non è un tempo vuoto da riempire, ma un cammino di speranza sulle orme del Cristo risorto Messaggio di S.E. Monsignor Francesco Oliva per la Quaresima 2021

Al Popolo di Dio, che è in Locri-Gerace!

Protèsi alla gioia pasquale sulle orme di Cristo Signore! Seguiamo l’austero cammino della santa Quaresima”.

Questo versetto dell’inno della liturgia delle ore del venerdì della I settimana di Quaresima traccia il cammino che saremo chiamati a fare in questo tempo forte dell’anno liturgico. Inizia in un clima di perdurante pandemia, che non sembra volerci liberare da questa pesante situazione di instabilità e fragilità. Viene come opportunità per andare incontro al Signore Risorto, passando attraverso la sua passione e morte.

Con Lui possiamo ritrovare fermenti di vita nuova, al di là di ogni emergenza sanitaria, sociale ed economica.

Con Lui possiamo condividere l’esperienza del deserto, vincere il male che aggredisce la nostra esistenza e partecipare alla luce sfolgorante della gloria pasquale. Ci guida la speranza che in questa drammatica situazione, possiamo ritrovare il senso della nostra vita ed il suo orizzonte ultimo.

Siamo esortati a vivere una vita nuova, sapendo che la Quaresima non è un tempo vuoto da riempire, ma un cammino di speranza sulle orme del Cristo risorto, che si rivela nella storia del chicco di grano, che “se caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24). Il richiamo non è alla morte, ma alla vita che rinasce. La gloria del Signore non è il morire, ma il portare molto frutto.

Tra le tante criticità di questo tempo, la vera sfida è condividere le fragilità di ogni uomo. Nessuno deve sentirsi solo di fronte al disagio psicologico, economico e spirituale che sta vivendo. I malati, i poveri, gli anziani, i disabili, le famiglie ridotte in povertà sono le categorie che più c’interpellano. Ma restiamo ancorati alla nostra fede, non lasciamoci prendere dall’ansia e dallo scoraggiamento. Come scriveva Madelaine Delbrêl: “Niente accade senza che Dio lo permetta e Dio niente permette che non possa tornare a sua gloria”.

La gloria del Signore, che si manifesta nella debolezza e nella fragilità, si rivela come “qualcosa di nuovo” all’orizzonte!

Finché riusciamo a intravedere qualcosa di nuovo oltre la prossima curva, nelle relazioni sentimentali come nella vita, possiamo dire di essere vivi anche in un tempo difficile come quello che stiamo attraversando”.

Lo afferma il cantautore Max Pezzali, che, nel suo album “Qualcosa di nuovo”, lancia un messaggio di speranza, invitando ad intravedere una luce nuova e a non lasciarsi sopraffare dagli eventi. Quando domina l’incertezza e la paura, ci sostiene la consapevolezza che la forza per superare le difficoltà può venire solo dalla speranza, che porta a guardare avanti con fiducia e coraggio. Senza arrendersi. Si aprono nuovi orizzonti di vita, che ci riscattano dalla paura che tutto possa procedere come sempre, senza possibilità di una svolta. E’ richiamo a “qualcosa di nuovo”, che può accadere, ad una novità che ci fa tornare a sperare, che ci riporta ad assaporare la bellezza dell’incontro con Dio. E ci fa sentire il richiamo di Dio: “Ritornate a me con tutto il cuore”(Gl 2, 12). Un appello ad una inversione di rotta, alla conversione del cuore, che ci consente di aprire gli occhi sulle tante emergenze del nostro territorio. E’ un “qualcosa di nuovo” che penetra in tutta la nostra vita, nelle sue relazioni fondamentali con Dio e con gli altri, ma anche con l’ambiente. “Un qualcosa di nuovo” che ci dona la speranza che anche il cuore più indurito possa rinnovarsi e cambiare, che c’è un antidoto a quel invisibile virus che spaventa. C’è un vaccino disponibile per tutti. Senza discriminazione alcuna, proprio perché viviamo ed esistiamo in un mondo in cui tutti siamo necessari, creati ed amati da Dio. Lo è il medico, l’infermiere, l’operatore sanitario, l’anziano, il prete, i religiosi e le religiose, le forze dell’ordine, come tutti coloro che con professionalità, senso di responsabilità e amore per il prossimo aiutano, curano e servono.

Ben venga ogni vaccino che immunizza e aiuta a vivere questa Quaresima come tempo di liberazione dal male che ci portiamo dentro. Dal male dell’indifferenza e della noncuranza, anzitutto:

Succede che, quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene… L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani” (Messaggio di papa Francesco per la Quaresima 2021).

L’indifferenza è un grave virus, che, chiudendoci in noi stessi, non ci fa vedere chi ci sta accanto, ci fa dimenticare che siamo sulla stessa barca, “fratelli tutti”, che “nessuno si salva da solo e, se tu non ti avvicini per fare in  modo che tutti siano salvati, neppure tu ti salvi” (Papa Francesco).

Se vogliamo costruire una vera umanità non basta il vaccino o i vaccini che immunizzano dal covid-19. C’è bisogno di quell’umanità, che ravviva la convinzione che abitiamo un mondo senza frontiere, ove la fratellanza è esigenza ineludibile. Questo mondo, che è il nostro mondo, invoca un vaccino speciale, quello della carità, che viene da Dio, e ci stimola a prenderci cura gli uni degli altri, soprattutto di quanti la società considera come un peso.

Viviamo la Quaresima come riscatto da ogni forma d’indifferenza, come tempo di conversione dell’io al noi. E’ bello sentirci Chiesa, che insieme cerca le risposte alle domande sollevate da questo tempo di pandemia. Una Chiesa che si fa compagna di strada di coloro che incontra, di quanti s’interrogano sul senso della vita e della morte, che sente propri i problemi, le gioie e speranze dell’uomo di oggi. Facciamo nostra la vocazione dell’essere servi di questa umanità non a parole, ma nella concretezza della vita. Le nostre comunità siano accompagnate in umiltà con la testimonianza di un Vangelo vissuto a superare la tentazione del primeggiare e del contrapporsi, a condividere le belle iniziative di carità, che ci sono nelle nostre comunità. E sono tante. E’ bello comunicarci e scambiarci ogni “segno di speranza”, ogni “buona pratica”, fatta di solidarietà, di amicizia sociale, di vicinanza nei confronti degli anziani, dei malati o delle persone sole, delle famiglie in difficoltà. Scopriremo ‘frammenti di Vangelo’, che ci libereranno dal male oscuro dell’indifferenza e della noncuranza, che inquina le nostre relazioni con Dio, con il prossimo e col creato.

Sia la Quaresima una palestra che ci aiuti a superare l’indifferenza verso Dio, che rischia di essere estromesso dagli interessi della nostra società. Molta gente non cerca più il Signore. Sempre meno persone si dichiarano credenti e appartenenti alla Chiesa, la frequenza alla pratica religiosa si è ridotta. Le statistiche parlano con sempre maggiore insistenza dell’emergere delle prime generazioni senza Dio, di una società ove la fede è sempre meno rilevante nella vita della gente. Ecco allora l’urgenza di ridare più spazio a Dio, per riscoprirlo nella quotidianità della nostra casa, per superare il pregiudizio che l’esperienza di Dio si possa circoscrivere nel tempio o nel luogo sacro. Sarà tempo per gustare la bellezza della preghiera, non ridotta ad una semplice ripetizione mnemonica di sillabe o di riti e cerimonia senza cuore, anche quando sul piano formale c’è poco da osservare. L’iniziativa delle 24 ore per il Signore, che desidero sia celebrata in tutte le parrocchie nei giorni 13 e 14 marzo, sarà un momento di unità diocesana e di preghiera per i sacerdoti, particolarmente per quelli che sono in difficoltà, e per tutta la nostra chiesa. Con l’aggiunta di una speciale intenzione di preghiera per il nostro seminario e per le vocazioni sacerdotali e religiose.

            Tra gli impegni di vita spirituale diamo priorità al Sacramento della Penitenza, che in questo periodo di coronavirus è stato un po’ trascurato, forse anche per le difficoltà restrittive impartite. I sacerdoti saranno sempre a disposizione, promuovendo anche celebrazioni comunitarie in piccoli gruppi. La Via Crucis ci aiuterà a rivivere il mistero della croce di Cristo ed il cammino, che, attraverso la sofferenza, porta alla salvezza.

Tutto il cammino quaresimale sia vissuto con sentimenti di vicinanza e di solidarietà verso il prossimo, sapendo vincere ogni forma di autoreferenzialità e avendo rispetto verso quanto ci sta attorno, in modo da vincere l’indifferenza colpevole verso l’ambiente e la casa comune.

Più volte è stato detto e scritto che la Locride è una terra meravigliosa, un vero giardino. E lo è. Dio l’ha dotata di un bel mare, di un microclima straordinario, di colline ridenti e soleggiate, di piccoli caratteristici borghi con una loro storia e cultura e soprattutto con tante tradizioni popolari che delineano con originalità la sua identità. Eppure la mano dell’uomo non è sempre rispettosa dell’ambiente e della casa comune, ne deturpa la bellezza. Si registrano cumuli di rifiuti domestici e commerciali, elettronici o industriali, detriti di demolizioni, lungo le strade, nei pressi delle fiumare, lungo le coste, nelle aree montane. Comportamenti riprovevoli ed incivili, che deturpano quel giardino nel quale Dio ha voluto stabilire la nostra abitazione. Non basta mettere in atto la raccolta differenziata dei rifiuti, se manca il senso civico ed il rispetto per l’ambiente, tipico della “cultura dello scarto”. Ogni comunità deve sentir propria la responsabilità di raccogliere i rifiuti che produce e fare in modo che l’ambiente sia pulito ed abitabile. Senza la partecipazione attiva e la collaborazione dei cittadini, e soprattutto senza vero amore per la natura che ci accoglie, non basta il lavoro di raccolta e smaltimento degli operatori ecologici, che faticano tanto e spesso sono in molti a lamentare di non essere ben retribuiti o di ricevere la paga mensile con molto ritardo. Cosa che crea disagio alla già debole economia familiare.

Vorrei rivolgere a tutto il popolo di Dio l’invito a vivere la Quaresima come tempo di conversione ecologica. Una “conversione ecologica” che esige una presa di coscienza della necessità di cambiare gli stili di vita, di vivere nella sobrietà e di riappropriarsi dell’essenziale della vita, senza perdersi nel superfluo o in un consumismo ossessivo, di fermarsi a gustare ed apprezzare la bellezza che ci circonda. Il Vangelo c’insegna che il bene e l’amore avranno sempre il primato sul male. E quando tutto sembra perduto, ci accorgiamo che tutto è connesso e che siamo chiamati a vivere in una relazione fraterna che ci rende comunità solidale. Questa conversione ci fa riscoprire la nostra comune vocazione di custodi del Creato. Una riscoperta che “è parte essenziale di un’esistenza virtuosa” e che “non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana” (Laudato sì, 217).

Buona Quaresima a tutti! Sia un bel cammino di rinnovamento interiore e di riconciliazione con Dio, con il prossimo e l’intero creato!

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“Preservare la salute è un interesse primario” Intervista rilasciata ai giornali cattolici da mons. Stefano Russo, segretario generale della Cei

Nel giorno dell’Atto di affidamento dell’Italia a Maria, mons. Stefano Russo, segretario generale della Cei, riflette sul significato di questo gesto per la comunità ecclesiale e civile. Intervistato per i media della Cei dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, mons. Russo spiega la posizione dei Vescovi italiani riguardo alle disposizioni contenute nell’ultimo Dpcm, alla luce dell’invito del Papa alla prudenza e all’obbedienza, e illustra a che punto è l’interlocuzione con il governo per l’elaborazione del Protocollo per le celebrazioni eucaristiche. Infine, si sofferma sul valore della festa dei lavoratori, in un tempo in cui il mondo del lavoro è messo a dura prova dall’emergenza sanitaria, gettando uno sguardo al domani che chiama in causa la responsabilità di ciascuno.

 

Eccellenza, la Chiesa italiana affida il Paese a Maria. Qual è il significato di questo gesto?

È un affido che giunge dopo un periodo doloroso, in cui tante persone hanno vissuto nella preghiera questa fase così complicata e difficile. Maria è colei che si fida e si affida al Signore, crede nonostante tutto all’amore di Dio: vogliamo presentarci a Maria e affidare a lei questo tempo, le nostre passioni, la volontà di camminare con lei e come lei verso il Signore. È l’affido di tutte quelle persone che si sono spese per gli altri – pensiamo agli operatori della sanità -, di tante famiglie che vivono situazioni di sofferenza o hanno visto lutti. È l’affido anche del mondo del lavoro, tra i più colpiti: il 1° maggio è la memoria di San Giuseppe lavoratore, sposo di Maria. È un affido dell’intero nostro Paese.

 

Avverrà nella basilica di Santa Maria del Fonte presso Caravaggio. Perché la scelta è caduta proprio su questo Santuario?

La scelta ci è sembrata opportuna per due aspetti significativi: anzitutto perché si trova in Lombardia, Regione colpita dall’epidemia più di altre; poi perché, sorgendo in provincia di Bergamo e nella diocesi di Cremona, unisce due territori flagellati dal virus. Caravaggio, inoltre, è un Santuario riconosciuto da tutti i lombardi come punto di riferimento per la venerazione a Maria.

 

Nei giorni scorsi, papa Francesco ha invitato “alla prudenza e all’obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni”. Le sue parole sono state interpretate da alcuni quasi come una presa di distanza rispetto alla posizione espressa dalla Cei nella nota in cui esprimeva il disappunto dei vescovi per il Dpcm.

Le parole del Santo Padre sono la cifra essenziale per il cammino da compiere da qui alle prossime settimane. In quelle parole non c’è contrapposizione con la Chiesa italiana: il Papa sostiene da sempre e con paternità il nostro agire. La Chiesa ha un’armonia polifonica, non contrapposta nelle sue voci, ma unita dalla comunione e dall’umanità. Non tenere conto della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni significherebbe essere ciechi e decontestualizzati rispetto al vissuto di tristezza e dolore con cui stiamo ancora facendo i conti. Nascono da questa passione per l’umanità anche le parole dei vescovi italiani. Nessuna fuga in avanti, dunque; né tanto meno irresponsabilità verso le regole o strappo istituzionale. Il confronto e il dialogo con le Istituzioni governative – anche in qualche passaggio dai toni forti – non è mai venuto meno, all’insegna di una reciproca stima.

 

A che punto è l’elaborazione del Protocollo per le celebrazioni eucaristiche?

Il dialogo con le Istituzioni governative è quotidiano e all’insegna di una collaborazione leale. Da lunedì avremo la possibilità di celebrare le esequie; stiamo lavorando da un paio di settimane su un Protocollo per le celebrazioni eucaristiche, che minimizzi al massimo il rischio del contagio: preservare la salute di tutti deve essere un interesse primario.

 

Molti fedeli hanno sofferto per la mancanza di accesso ai sacramenti, invocando la ripresa delle celebrazioni con il popolo. Che cosa dice loro?

Come Chiesa stiamo condividendo le limitazioni imposte a tutti dall’emergenza sanitaria. Abbiamo cercato di reagire moltiplicando proposte che hanno potuto contare sul supporto decisivo dei media e della rete. Mi auguro che questa sofferta privazione, come ogni digiuno ben motivato, alimenti il desiderio e sostenga anche l’attesa della celebrazione, di quel culto – che per chi crede – è sostegno a ogni forma di libertà. Allo stesso tempo, la Chiesa è presenza viva del Signore, che si incarna in coloro che accogliendo la sua Parola se ne fanno testimoni: le opere di carità e di prossimità in questo tempo si sono moltiplicate in modo straordinario. Il sito https://chiciseparera.chiesacattolica.it dà visibilità a molte di queste, espressione della vivacità delle comunità locali.

 

Il calo del PIL potrebbe far segnare un -15% nel 2020. Migliaia di posti di lavoro persi e attività commerciali chiuse saranno l’effetto sull’economia di una crisi sanitaria che cambierà la vita di molti italiani. Nella ricorrenza della festa dei lavoratori, che messaggio vuole dare la Chiesa italiana al Paese?

È un primo maggio difficile. La crisi sanitaria ha generato una crisi economica che si riverbera drammaticamente sul lavoro. Nulla sarà come prima, hanno scritto i vescovi italiani nel messaggio per il 1° maggio di quest’anno. Ascoltiamo il grido di dolore che si leva da tutto il territorio italiano, da ogni comparto produttivo, dai lavoratori autonomi, dagli stagionali, da coloro che subiscono la duplice vessazione del lavoro in nero e del caporalato. In quanti temono di non riaprire la loro attività, di non trovare più il proprio impiego, di sprofondare nella disoccupazione? Non manca chi si approfitta di questa situazione per imporre salari indecorosi a chi, per necessità, accetta impieghi sfiancanti. Il lavoro è dignità, ricorda anche il Santo Padre. E quando la Chiesa parla del lavoro non descrive un principio astratto, ma parla degli uomini e delle donne che lavorano e lo fa perché è un dovere che le appartiene. Parlando agli operai dell’Ilva di Genova il Papa disse: “Il lavoro è una priorità umana. E pertanto è una priorità cristiana”.

 

La Chiesa e il lavoro, un legame che viene da lontano.

La spiritualità benedettina segue il motto “prega e lavora” e i Santi, a ben guardare, sono spesso dei grandi lavoratori. Non a caso ogni professione, ogni mestiere, ogni arte, ha un suo patrono. Non è solo devozione popolare, ma il segno di una prossimità autentica della Chiesa, risalente nel tempo, ai lavoratori tutti: oltre ad intervenire con aiuti materiali, si è anche pensato a un affidamento spirituale, una tutela integrale. E ancora, come non pensare che anche Gesù ha lavorato in bottega con Giuseppe? Avrà piallato e scalpellato; avrà sudato e si sarà ferito. Gesù conosceva la fatica e la preziosità del lavoro e per questo, come sottolinea la dottrina sociale della Chiesa, ne riconosce sempre il valore e l’importanza. Non poche delle sue parabole hanno a che fare con il mondo del lavoro: il seminatore, gli operai e la messe, i vignaioli, i talenti non fatti fruttare. Ai discepoli dice: “Vi farò pescatori di uomini”, così chiarendo che l’evangelizzazione non è automatica, ma è lo sforzo del pescatore di mettere la barca in acqua, l’attesa paziente, la fiducia nella raccolta della rete, il ricominciare ogni giorno.

 

Cosa succederà nei prossimi mesi? Come si risolleverà la società?

È nel “dopo” che si vedrà la tenuta della nostra società. Il futuro si fonderà sulla nostra capacità di “fare squadra”, partendo dagli ultimi, sulla solidarietà rispetto all’egoismo. Il dopoguerra in Italia per i nostri genitori fu un momento straordinario di ricostruzione collettiva: uscita dalle devastazioni e dalle privazioni del conflitto, la comunità si trovò coesa, pronta non solo a “fare”, ma a “fare insieme”. Inoltre, i cittadini erano accompagnati da aziende ben radicate sul territorio e dà garanzie reali sul fronte dello stato sociale. Oggi molte delle condizioni che c’erano allora non ci sono più: il lavoro è diventato flessibile, liquido, precario. Il contesto è poi reso instabile da una congiuntura che non ha eguali e che ha colpito forte proprio laddove qualcuno pensava risiedesse il punto di forza del sistema: la globalizzazione. È necessario ripensare le priorità e ridisegnare una nuova economia, rispettosa dell’uomo e del creato, sulle orme della Laudato Si’.

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Salviamo le scuole pubbliche paritarie Lettera aperta di S.E. monsignor Francesco Oliva

 

 

ph agensir.it

S.E. monsignor Francesco Oliva, vescovo di Locri-Gerace, facendo proprie le preoccupazioni espresse dal Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana, il 16 aprile scorso, in merito alla sospensione delle attività scolastiche di ogni ordine e grado ed in modo particolare sulle ripercussioni che la sospensione avrà sulle scuole paritarie, ha invitato il responsabile della Fondazione diocesana Opere di Religione, avv. Domenico Vestito, “ad un impegno concreto e sinergico con le realtà similari per rilanciare tali attività, sostenerle e coordinarle”.

Bisogna adoperarsi per scongiurare il pericolo della chiusura di questi “punti di riferimento fondamentali per l’educazione di tanti bambini”. Il vescovo, nella sua lettera, ha parlato delle difficoltà vissute da tutti in questi giorni: “Sono giorni difficili di angoscia e trepidazione, ma anche di attesa fiduciosa del superamento di questa fase di emergenza, determinata dalla diffusione del coronavirus. Tutto il mondo della scuola ha accolto con la massima responsabilità e con la scrupolosa osservanza le prescrizioni date ed ogni iniziativa, finalizzata a bloccare la propagazione di questo nemico subdolo e insidioso. E’ il tempo di pensare a come ripartire e definirne al meglio le linee con una progettualità chiara, che dia risposte certe ai tanti bisogni che si stanno progressivamente determinando”.

La Conferenza Episcopale Italiana aveva posto l’accento sul fatto che il decreto legge “CuraItalia”, adottato dal Governo per dare una prima risposta alle esigenze determinate da COVID-19, non affronta il tema delle scuole pubbliche paritarie; realtà, queste, che anche nella Locride interessano tantissimi alunni (soprattutto delle scuole primarie e dell’infanzia) e una forza lavoro composta da insegnanti, collaboratori e altro personale scolastico. Queste scuole rappresentano un riferimento formativo importante: “Sono realtà vive, dinamiche -scrive il Vescovo- centri educativi e, perché no, di sostentamento economico, sulle quali desidero richiamare tutti, e le istituzioni in particolare, a porre una particolare attenzione. Si tratta di strutture situate in paesi, il più delle volte piccoli o piccolissimi, nei quali non esistono altre esperienze educative e formative, dove anche lo Stato, molto spesso, ha chiuso le scuole. Segni di speranza e fiducia nell’avvenire. Il problema coinvolge, anzitutto, le famiglie, che continuano certamente a fruire del lavoro di queste realtà, attraverso la didattica a distanza, ma che faticano a sostenere le rette, peraltro sostanzialmente basse, a causa dall’assenza dal lavoro di uno o di entrambi i genitori. I gestori, poi, rischiano seriamente di non poter ripartire. Il contributo economico delle famiglie, infatti, è essenziale, rappresentando la quasi totalità delle risorse per la copertura delle consistenti spese, specie per quanto riguarda il personale, qualificato e professionale”.

L’appello di S.E. monsignor Oliva è stato immediatamente raccolto dal responsabile della Fondazione diocesana Opere di Religione, avv. Domenico Vestito, il quale si è messo in collegamento con quanti, a livello nazionale, stanno cercando di creare una rete di sensibilizzazione. Il primo punto della loro azione è quello di far approvare una norma che preveda il rimborso, alle famiglie delle rette che stanno sostenendo in questo periodo; l’altro punto riguarda la loro disponibilità ad offrire dei locali, anche alle scuole statali, per permettere il distanziamento sociale nella prospettiva di una riapertura. A livello regionale, ha dichiarato l’avv. Vestito, “sarà chiesto un incontro alla Presidente della Regione, Iole Santelli e all’Assessore Regionale all’Istruzione, perché in Calabria prendano avvio iniziative di sostegno specifiche, frutto di una piattaforma che elaboreremo con i gestori, oltre quelle che si stanno domandando a livello nazionale”.

Locri 21 aprile 2020

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