Accoglienza: tra slogan e
utopia
di Enzo Romeo

Accoglienza: tra slogan e utopia

    Con l’«esilio» forzato dalla sua Riace il sindaco Domenico Lucano ha avuto modo in questi mesi spiegare, con incontri e interventi sui mass media, che i migranti sono i proletari del terzo millennio e che la solidarietà verso di loro è un dovere. Il suo testone da calabrese cocciuto ha rappresentato un popolo povero ma accogliente, dove una volta chi incrociava qualcuno gli diceva «Favorite!». E tirava fuori dal fagotto quel poco di cibo che poteva offrire.

Perciò rattrista una vicenda giudiziaria che forse è il prezzo (ingenuità e presunzione a parte) di un’utopia irrealizzabile, tanto più nell’Italia di oggi. La speranza è che la vicenda Riace serva a capire che l’impegno umanitario verso gli immigrati non può essere separato da un altro egualmente essenziale: il rilancio socio-economico del territorio. Trovando modalità concrete che consentano di procedere come su due rotaie di un unico binario. Con la speranza che giunga finalmente in stazione un treno che porti crescita solidale, lavoro e prospettive di sviluppo. Per tutti.

Il «modello Riace» è stato caricato di simboli, di attese, di speranze e di retorica. Un bandiera da sventolare, magari a volte su cui speculare. L’attenzione verso gli ultimi, i più diseredati ed emarginati, tratto fondamentale della nostra civiltà, trasformato in uno slogan, in un mantra. Nel frattempo, però, i poveri cristi si sono trasformati in una massa anonima. Non si è trattato più di accogliere i curdi spiaggiati sulle nostre coste, ma di dare ospitalità a gente sbarcata a centinaia e centinaia di chilometri di distanza, condotta fin da qui e «presa in gestione» da un ente. Nel caso specifico, da piccoli comuni di una delle zone economicamente più depresse d’Italia. Per far cosa? La domanda, un po’ perniciosa, è stata riproposta fin troppe volte. Seguita da un’altra, ancor più maliziosa: per lucrare sulla manciata di euro che lo Stato destinava al mantenimento di profughi e immigrati?

Sicuramente la confusione ha portato a coniare il termine “industria dell’accoglienza”: un ossimoro, per dire che gli sbarchi erano un modo per risollevare il territorio o, almeno, per avere una boccata d’ossigeno. Un’industria di risulta, fatta di mance destinate al sostegno di chi si è aggrappato all’Italia come fa un profugo con una tavola di legno mentre la nave affonda. Lo sappiamo, anche pochi posti di lavoro, precari e malpagati, dalle nostre parti fanno gola. Che male c’è? Facciamo ciò che ci riesce meglio, cioè accogliamo, e in cambio riceviamo soldi per creare cooperative, per alimentare il commercio… Adesso fa male assistere alla chiusura della dozzina di centri d’accoglienza e integrazione dell’area ionica reggina, come conseguenza del decreto sicurezza. Vuol dire decine di operatori sociali a spasso senza stipendio.

Dobbiamo, però, chiederci in tutta onestà: si può creare vero sviluppo e futuro trasformando un intero paese in una specie di villaggio-Sprar? Nel frattempo continuiamo a mandar via da queste terre i nostri figli perché non siamo stati capaci (o non ci hanno permesso) di dar loro una prospettiva di vita. Il territorio è desertificato. I giovani, linfa vitale, scappano con un biglietto di sola andata. Siamo, del resto, nell’epoca del fuggi fuggi, del si-salvi-chi-può. La crisi di sistema – che dall’economia si estende a politica e società – sta erodendo la speranza. Partire è di nuovo un imperativo per tutti noi calabresi, non solo per i fratelli di quello che una volta chiamavamo “terzo mondo”. Bisogna, allora, concentrarsi sulla necessità (o almeno la possibilità) di rimanere là dove si è nati, nei luoghi della propria infanzia e giovinezza, quelli che ci hanno formato e che meritano di non essere abbandonati ma presi in cura. Questo vale per il calabrese e per il maliano, per il siculo e per il nigeriano o l’indiano o il bengalese…

La prima carità da fare è verso il pezzo di mondo che ci è stato affidato e che sta agonizzando. Più istruzione e cultura perché cambi la mentalità fatalista, perché il senso di giustizia e legalità prevalga sulle scorciatoie mafiose; nuove strutture e investimenti per rilanciare l’imprenditoria locale; maggiore creatività per progettare strade nuove, che mettano a frutto le bellezze climatiche, storiche, e ambientali di cui disponiamo. Certo, è impresa difficile, ma bisogna guardare lontano, non accontentarsi di arrivare a domani mattina. Così si creano davvero le condizioni per accogliere e integrare.

Enzo Romeo

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